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Spie e tecnici
Il caso Biot rappresenta il manifesto programmatico della geopolitica del Governo Draghi
Il caso della vendita di segreti militari da parte dell’Ufficiale della Marina Walter Biot ha occupato per giorni le principali pagine della cronaca dei quotidiani nazionali. Questo clamore potrebbe essere effettivamente giustificato dalla gravità del fatto, ma in realtà episodi di spionaggio e vendita di informazioni riservate o segrete sono, per certi versi, una norma piuttosto presente nella relazione tra stati, come sottolineato ad esempio dalla maggiore pubblicazione geopolitica italiana, Limes. Nella maggior parte dei casi, questi eventi non vengono fatti emergere in alcun modo dall’apparato istituzionale e che difficilmente riescono effettivamente a raggiungere i media, anche in casi ben più gravi di quello che vede coinvolto Biot. Una tale risonanza mediatica, decisamente inusuale, fa allora intendere che attorno a questa vicenda ruotino elementi e questioni di natura molto più ampia, quali l’assetto geopolitico del governo di Mario Draghi e i suoi rapporti con il Cremlino e la Casa Bianca.
Gli scambi di informazioni avvenivano in un parcheggio della periferia romana di Spinaceto, dove l’Ufficiale Biot si incontrava con funzionari dell’ambasciata russa per dare loro una confezione di un farmaco, contenente all’interno una scheda di memoria dentro la quale, secondo gli atti, erano contenute ben centottantuno copie di documenti cartacei classificati, tra cui ben quarantasette segreti Nato; questi sarebbero stati quindi venduti da Biot per cinquemila euro. Per quanto sulla natura delle informazioni vendute si è a lungo dibattuto senza la certezza che si tratti di segreti di stato fondamentali ( come la cifra e il grado di Biot lasciano presupporre), appare chiaro come questo aspetto sia apparso totalmente secondario rispetto alla vicenda in sé, che per giorni è divenuta centrale all’interno del dibattito pubblico nazionale. Nel mentre, nella vicenda sono emersi anche i nomi di due importanti funzionari dell’ambasciata russa che costituirebbero la rete spionistica entro cui è stato coinvolto Biot: Alexej Nemudrov e Dmitri Ostrouchov – riconducibili secondo Repubblica alla stessa rete di affari entro cui è stato coinvolto qualche tempo fa il duo Salvini-Savoini,elemento sul quale si sono scontrati Partito Democratico e Lega. La reazione del governo italiano non si è quindi fatta attendere: non solo Nemudrov e Ostrouchov sono stati espulsi dall’ambasciata russa e fatti tornare in madrepatria, ma lo stesso ambasciatore russo è stato richiamato alla Farnesina, il che è sintomo dello sdegno da parte del governo italiano e non solo. Una situazione che potrebbe apparire come un caso eccezionale privo di alcuna valenza più ampia, ma che è in realtà l’esempio lampante della nuova strategia geopolitica che il nuovo esecutivo Draghi sta cercando di dare all’Italia.
Un Paese in difficoltà
Le vicende orbitanti attorno a questo caso di spionaggio sono ben maggiori di quanto si possa sospettare a una prima analisi: il caso Biot, se analizzato all’interno del contesto della strategia geopolitica del Governo Draghi, mostra delle implicazioni fondamentali per il futuro del ruolo internazionale dell’Italia.
Come osservato nella prima parte dell’articolo, casi di questo genere sono estremamente comuni all’interno dei contesti degli apparati militari delle grandi potenze globali ed è estremamente difficile che divengano scandali nazionali, poiché sono gli stessi governi a non rendere pubblica la notizia, che altrimenti verrebbe interpretata come segno di debolezza dell’intera struttura statale. Dinanzi all’eccezionalità del caso Biot, il quale ha occupato per settimane le pagine della cronaca nazionale, è giusto dunque interrogarsi sulla possibilità che siano stati gli stessi organi statali italiani a dare il via libera alla pubblicazione della notizia: una tesi che può trovare conferma all’interno della stessa strategia geopolitica italiana lanciata dal nuovo esecutivo Draghi.
Fin dal discorso al Senato nel giorno della votazione sulla fiducia al suo governo, l’ex presidente della Bce ha immediatamente mostrato le linee guida programmatiche della politica estera italiana sotto il suo esecutivo: «Questo sarà un Governo convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia, che abbiamo scelto fin dal Dopoguerra, in un percorso che ha portato benessere, sicurezza e prestigio internazionale». Una frase atta a sottolineare la decisa scelta di campo da parte del nuovo esecutivo italiano, finalmente pronto a riabbracciare i propri storici partner internazionali (Unione Europea, Nato e Stati Uniti) dopo che i precedenti governi guidati da Giuseppe Conte si erano contraddistinti per una mancanza assoluta di una linea strategica nella gestione della politica estera del nostro Paese. Una linea, simboleggiata dalle figure dei due precedenti ministri degli esteri, Enzo Moavero Milanesi e Luigi di Maio, che ha visto l’Italia muoversi in maniera confusa a livello internazionale, cercando di agire contemporaneamente su quanti più tavoli di dialogo possibili, perdendo così la propria centralità all’interno delle aree di maggiore interesse per il nostro Paese. Questo è certamente il caso del Mediterraneo, dove l’Italia è passata in pochi anni da pedina centrale dello scacchiere internazionale a mero comprimario rispetto alla potenza emergente della Turchia, con Istanbul capace di imporsi anche all’interno della Libia, Paese storicamente legato al nostro, dove l’influenza italiana non era mai stata messa in discussione in precedenza.
Tale gestione da parte della Farnesina ha compromesso il nostro status internazionale, specie davanti ai partner storici, come Unione Europea e Stati Uniti. La prima, soprattutto durante l’esperienza del governo giallo-verde, ha visto nel nostro Paese una minaccia per la stabilità stessa dell’Unione, da contrastare in ogni modo, come dimostrato dalle trattative sulla manovra economica del 2018 dove la Commissione si è rivelata impassibile dinanzi alle richieste del governo di portare il rapporto deficit/PIL al 2,4% (poi effettivamente portato al 2,04% dopo mesi di lunghe contrattazioni, che hanno minato la credibilità del Conte I).
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, invece, il nostro Paese si è macchiato di un crimine gravissimo agli occhi dello storico partner: si è aperto ad una partnership con il governo cinese, culminata con la firma del Memorandum d’intesa fra Italia e Cina, che ha permesso a quest’ultima di ottenere il primo riconoscimento da parte di un Paese del G8 al suo progetto della “Belt and Road Initiative”. Una scelta che ha scatenato l’ira di Washington, tradita da uno dei suoi partner più importanti proprio in favore della potenza che maggiormente cerca di abbattere l’impero geopolitico americano, tramite progetti di penetrazione politico-economica proprio come la Bri. Una situazione che non ha fatto altro che sfavorire ancor di più l’Italia, visto che gli Stati Uniti, prima potenza militare all’interno del contesto del Mar Mediterraneo, non si sono imposti in alcun modo per impedire il “cambio di guardia” in Libia a favore della Turchia, ad esempio una maggiore promozione delle missioni di controllo Nato, come la “Sea Guardian”, per impedire al governo di Erdogan di commerciare armi con quello di Al-Serraj. Una situazione che ha visto dunque l’Italia scivolare lentamente nella totale inutilità a livello internazionale, apparentemente incapace di ristabilire la propria centralità, quanto meno nella zona mediterranea che l’ha sempre vista protagonista nel corso dei secoli precedenti.
La svolta di Draghi
Proprio mentre l’Italia sembrava imboccare una strada senza via d’uscita, a donare una nuova direttrice alla politica estera italiana è arrivato il nuovo esecutivo guidato da Mario Draghi. Per quanto le priorità stabilite per questo ibrido fra governo tecnico e politico fossero certamente la gestione del piano vaccinale e il risollevamento dell’economia italiana dalla crisi in cui è sprofondata a causa della pandemia, come abbiamo osservato in precedenza, è stato lo stesso Draghi, fin dal discorso in Senato, a porre come centrale all’interno del suo piano di governo la strategia geopolitica italiana. Volendo citare le parole di Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes, la posizione dell’ex-governatore della Banca d’Italia non è altro che la conferma dell’inesistenza di governi tecnici, che si rivelano sempre effettivamente come politici. In questo senso, appare chiaro come la gestione da parte dell’apparato statale nei confronti del caso Biot sia un chiaro segnale che il nuovo esecutivo lancia a Stati Uniti e Russia, come ha scritto più volte Dario Fabbri all’interno dei suoi commenti su Limes. Al nostro alleato viene confermato che ogni contatto atto a favorire il governo Putin verrà severamente punito: atto di fedeltà necessario per ottenere nuovamente consensi all’interno della nuova amministrazione federale americana, a cui bisognerà dimostrare che le storture geopolitiche che ci hanno viste protagonisti negli scorsi anni non si presenteranno più. L’altro destinatario del messaggio di Draghi è certamente la Russia di Putin, che dalla vicenda Biot riceve un sonoro avvertimento da parte del governo italiano sulla fine dei rapporti favorevoli che sono intercorsi fra i due Paesi, specie durante il periodo che ha visto la Lega al governo, come testimoniato dalla mai chiarita querelle Savoini. Un passo necessario che pone le basi per la rinascita della politica estera del Paese, tramite un riconsolidamento del rapporto con i nostri principali partner strategici.
I frutti di questo lavoro sono già visibili: nel pieno del caso diplomatico tra Draghi ed Erdogan (altro messaggio che mostra l’attenzione del nuovo governo italiano verso una riacquisizione di centralità all’interno della cornice mediterranea), la penisola italiana sta beneficiando del riavvicinamento con gli Stati Uniti, come dimostrato dal sostegno promesso dal Segretario di Stato Blinken al suo parigrado Luigi di Maio, in visita istituzionale negli Usa per il tentativo, da parte dell’Italia, di riappropriarsi della posizione dominante all’interno dello scenario libico. Questione che, se legata al viaggio istituzionale del premier in Libia e ai costanti rifornimenti militari che il nostro Paese concede all’Egitto di Al-Sisi (che deve guardarsi dalla Turchia per il forte interesse di Erdogan nei confronti del canale di Suez), mostra come Draghi abbia già impostato una precisa linea guida per l’azione estera italiana, con l’obiettivo di cercare di recuperare il terreno perso nel corso di questi ultimi anni, imponendola ai dirigenti della Farnesina e soprattutto a Luigi di Maio, il quale, dopo un primo mandato di scarsissimo valore, sotto la direzione del nuovo esecutivo, sta giocando un ruolo centrale nel riassestamento internazionale del nostro Paese.
Quello che troviamo dinanzi pare, dunque, un controsenso: un governo apparentemente tecnico, chiamato a risollevare unicamente le sorti economiche e sanitarie di questo Paese, ha invece posto la rinascita geopolitica italiana come cardine centrale del proprio operato. Per quanto è innegabile che si debba aspettare prima di vedere i risultati concreti di questa volta, è evidente che il Governo Draghi sia riuscito a dare una nuova rilevanza all’operato estero del Paese, argomento spesso dimenticato o bistrattato a livello di dibattito nazionale generale. Pur se ciò sta avvenendo con molte contraddizioni, come ad esempio l’elogio dell’operato libico nella gestione dei flussi migratori o mantenendo in piedi il commercio di armi con l’Egitto che ancora oggi impedisce di far luce sul caso Regeni, il nuovo esecutivo italiano, pur nel pieno della crisi economico-sanitaria dal secondo dopoguerra ad oggi, è riuscito a rimettere in moto l’apparato geopolitico del paese.
Articolo di Luca Bagnariol e Giovanni Argentino