Lo studente deve tornare centrale nel mondo dell’Università

Intervista a Pier Giorgio Bianchi, CEO di Talents Venture

Le difficoltà dell’Università italiana non si fermano certo alla didattica online. Mentre in Italia infuria la seconda ondata della pandemia, per molti atenei e soprattutto per il Ministero con sede a viale Trastevere non sembra mai passata la prima fase della crisi. Mentre le università italiane affrontano le sfide poste dalla pandemia, per moltissimi studenti questa è solo l’ennesima crisi in un mondo universitario già dissestato. Questa crisi, però, potrebbe avere degli effetti preoccupanti sull’inserimento dei neo-laureati nel mondo del lavoro, e sono ancora sconosciuti gli effetti dei colpi della pandemia sulle generazioni che si ritrovano a valutare un futuro all’interno delle facoltà italiane.

Ne abbiamo parlato con Pier Giorgio Bianchi, CEO e fondatore di Talents Venture, società di consulenza specializzata in servizi di orientamento e sviluppo di soluzioni a sostegno dell’istruzione universitaria, che già ad agosto in un rapporto analizzava l’impatto delle misure a sostegno degli studenti universitari.

 

A tratti è sembrato che l’Università fosse l’ultimo ambito di cui occuparsi. Ovviamente però le politiche attuate sono state al centro della discussione, dal momento che avrebbero riguardato la vita di milioni di persone. Nel vostro rapporto sostenete come la No-Tax area possa essere insufficiente. Oggi questa considerazione ancora è vera? Se sì, perché?

Se è ancora vera oggi in realtà non lo possiamo dire, non esistono dati aggiornati per ora. I primi dati che usciranno sono quelli sul numero degli immatricolati, su cui verteva lo studio precedente di Talents Venture, mentre quelli sull’accesso e sulla tassazione e agevolazione economica usciranno addirittura più tardi. In ogni caso si parla di fine febbraio. Perciò quando si sente dire che queste misure “hanno aiutato i ragazzi ad immatricolarsi” bisogna tener presente che si tratta di dichiarazioni degli atenei, ancora non supportate da dati ufficiali.

Fatta questa premessa, della No-Tax area pensiamo che possa essere insufficiente per tre macrocategorie di ragioni. La prima: ci portiamo sempre dietro il problemi degli idonei non beneficiari. C’è da verificare che tutti coloro che hanno accesso alla No-Tax area riescano effettivamente a sostenersi e a ricevere queste agevolazioni, anche perché sono state fatte delle stime, come abbiamo scritto, senza tenere conto del probabile peggioramento della situazione economico-finanziaria delle famiglie. Immaginiamo che quest’anno, a causa della pandemia, le persone che hanno un ISEE per cui si rientri nella No-tax area possano essere di più di quelle degli anni precedenti.

La seconda problematica riguarda chi rimane fuori dalla No-Tax area, non solo persone che non presentano l’ISEE o hanno un ISEE alto, ma anche studenti cosiddetti ‘borderline’. Il rischio è che su questi possa poi essere scaricato il “mancato incasso” degli atenei. Magari l’ISEE dei loro nuclei familiari è solo di cento euro sopra la soglia fissata. Un eventuale aumento dei costi graverebbe su questa categoria di studenti, e bisogna fare attenzione affinché ciò non accada.

Il terzo punto è quello che riguarda appunto il “mancato incasso” degli atenei. Non è detto che le risorse stanziate dallo Stato coprano quanto gli atenei avrebbero dovuto incassare negli anni precedenti. È possibile che gli atenei si aspettino di ricevere ulteriori risorse a copertura della No-tax area in modo da non dover tagliare la qualità dei servizi.

Comunque, alla luce di tutto quello che è successo, è positivo che sia stato fatto qualcosa. Eppure potrebbe non bastare, per questo è importante non abbassare la guardia.

 

Prendendo una prospettiva più “qualitativa” su questa crisi: nel rapporto citate una «marcata volontà di specializzarsi ulteriormente a causa della crisi dovuta alla pandemia di COVID-19». Questo tipo di ragionamento a cosa pensate possa portare? Quali potrebbero essere le conseguenze a lungo andare?

 Sicuramente, da un lato, porterà a scoraggiamento da parte dei ragazzi: doversi laureare ed entrare in un mercato del lavoro in questa situazione li colpisce internamente. Questo vale per chi sta per terminare il percorso, ma il disagio c’è anche per chi entra nel mondo universitario o magari decidere se fare o meno la magistrale. I ragazzi sono comunque demotivati dal contesto o comunque rischiano di esserlo, quindi è sempre importante far passare dei messaggi positivi affinché questa paura generale, per quanto momentanea, non influenzi le scelte che riguardano anche i futuri studenti universitari.

Questo è un tema estremamente importante di cui bisogna continuare a parlare. Si è fatto veramente poco per tutta la categoria dei laureati nell’anno accademico 2020/2021. Questi ultimi già si sono laureati da casa, che non è il massimo… Per di più la maggior parte non riuscirà ad entrare subito in un mercato del lavoro già estremamente difficile e complesso. Quando si tornerà alla normalità, speriamo presto, in qualche modo saranno in competizione con i nuovi laureati. A questo proposito vari studi, sia italiani che statunitensi, dimostrano che chi si laurea in una crisi sconta questa cosa per tutta la propria carriera. Questi ragazzi si trovano di fronte a un mercato del lavoro che in Italia è già ai livelli minimi, e rischiano così di essere l’ennesima generazione perduta. Per loro dev’essere fatto qualcosa, e che sia un’azione incisiva sul mondo lavoro.

A mio parere, in questo Paese si continua ad utilizzare l’istruzione come palliativo per la mancanza di lavoro. Si cerca di tenere i ragazzi il più possibile nel mondo dell’istruzione e della formazione perché in realtà non c’è sbocco concreto nel mercato del lavoro. Su questo bisogna lavorare tanto, soprattutto per i ragazzi che si sono laureati quest’anno.

 

Si legge spesso di skills gap, che causerebbe una “produzione” di persone molto qualificate in settori considerati “non strategici”, che poi difficilmente trovano lavoro. È vero che c’è questa tendenza? Qual è il risultato? E soprattutto, la crisi legata alla pandemia di COVID-19 ha degli effetti collaterali sullo skills gap?

La prendo alla larga per arrivare al punto. Tu hai usato la parola “produzione”, che è parte del problema. Fino a qualche anno fa l’aspetto dell’istruzione formativa veniva vista proprio in quest’ottica. Ovvero: io devo produrre una materia prima che sono i laureati, che poi mi serve nel processo produttivo del mondo del lavoro.

Questa cosa fino a qualche anno fa andava bene, perché il periodo di produzione durava 4/5 anni e mi permetteva di avere un “prodotto” finito, il laureato, per un ruolo della durata di 40/50 anni. Non è più così. Il mercato del lavoro è sempre più complesso, cambiano le richieste da parte delle aziende e da qualche anno ci troviamo davanti a questo contesto, dove quelli che ci perdono maggiormente, sono i cosiddetti laureati con le cosidette “lauree deboli”, ovvero giovani laureati ad esempio in corsi di studio umanistici.

Quel che penso e la filosofia cerchiamo di promuovere come Talents Venture è che non esista un problema di lauree deboli, ma di scelte consapevoli. Perché se è vero che in media facoltà come psicologia o lettere hanno un tasso occupazionale più basso di lauree come ingegneria, è altrettanto vero che ci sono, all’interno di queste macro-facoltà come lettere, storia e psicologia delle eccellenze per cui le possibilità di occupazione dopo la laurea sono le stesse che per un laureato in ingegneria.

Bisogna lavorare su tre livelli. Da una parte bisogna far presente ai ragazzi che non è che “non convenga” studiare storia o lettere, ma al contrario che non tutti i corsi di laurea in storia o lettere sono uguali e che quindi bisogna capire quali sono le offerte formative migliori in quel contesto.

In secundis bisogna lavorare sugli atenei stessi. Non è possibile che un’offerta formativa, un corso di laurea in lettere o anche in ingegneria, in tanti casi sia uguale allo stesso corso di laurea che veniva fatto 10 anni fa. I corsi di laurea si devono aggiornare e questo da un lato è compito degli atenei, dall’altro le varie università hanno le mani legate, perché per loro non è facile proporre nuovi corsi di studio.

L’ultimo campo d’intervento è quello delle imprese, perché neanche qui ci si rende conto del cambiamento del mercato del lavoro. Quando affermano di aver bisogno di determinate figure e citano lo skills gap, è possibile che quella professione o quelle competenze non esistano neanche più e ne esistano già altre. Non sanno che per coprire quella posizione possono valorizzare profili che non hanno per forza un background per quel lavoro. Un esempio: per una figura come il manager non è detto che l’azienda debba per forza assumere un laureato in economia, dal momento che magari anche un laureato in psicologia è possibile che sappia usare allo stesso modo quei pochi strumenti che servono sul mercato del lavoro.

Per combattere uno skills gap bisogna quindi dare delle risposte concrete su questi tre livelli: sensibilizzare i ragazzi e fargli capire che non tutti i corsi sono uguali. Rendere le università flessibili di cambiare la loro offerta formativa, in modo tale da insegnare nuove conoscenze. E infine aiutare il mercato del lavoro e le imprese a capire cosa gli possa servire veramente. In Italia, dove abbiamo un tessuto produttivo fatto di piccole e medie imprese, discorsi di questo tipo non sono affatto scontati.

 

Rispetto alla situazione già critica che avete evidenziato nel rapporto, pensate che la sfiducia tra gli studenti aumenterà?

 Noi siamo abituati a ragionare coi dati, e non sappiamo nulla di “nuovo” da questo punto di vista. Però la nostra percezione è che potrebbe cambiare poco per chi è già dentro l’università, quindi tra quelle persone che il proprio percorso l’hanno iniziato e lo continueranno anche se chiaramente saranno un po’ stufe. Potrebbe peggiorare la situazione, e noi lo vediamo con l’attività di orientamento dei ragazzi delle scuole superiori, per chi nel mondo universitario ci deve ancora entrare. Per loro la situazione è più complicata. Di attività di orientamento per aiutare questi ragazzi a scegliere il corso di laurea già se ne facevano poche (e in alcuni casi anche fatte non bene) prima della pandemia, ma in questa situazione d’emergenza in cui già è tanto riuscire a fare lezioni e interrogazioni… Quello lì è un altro “faro” su cui pensiamo si debba lavorare.

 

Su Scomodo n°35, nel nostro Focus, ci siamo concentrati sul divario territoriale tra atenei di Nord e Sud Italia. Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) eroga sempre più fondi su base meritoria, nella quota “premiale”, avvantaggiando le università che già hanno un ranking più alto (nel 2014 la quota premiale costituiva il 19% dei fondi erogati agli atenei, nel 2019 il 30%, ndr). Pensi che questa crisi nel mondo dell’Università contribuirà all’ampliamento di questo divario?

 Non è detto. Stando alle dichiarazioni di alcuni atenei del Sud qui sarebbero aumentati gli immatricolati a causa della pandemia, studenti che anziché andare a studiare altrove sono rimasti a casa e hanno deciso di frequentare l’università nei loro territori. Per l’effetto complessivo dovremo aspettare i primi mesi del 2021, quando avremo dati più sicuri.

Il divario territoriale però c’è. Ed è figlio, da un lato, del mercato del lavoro. Se nel Paese un terzo dei laureati ricercati dalle aziende sono in Lombardia, che poi spesso è Milano, e se in questo senso i numeri della Lombardia corrispondono a quelli di 16 regioni d’Italia messe assieme è evidente che abbiamo un grande problema. Dall’altro lato però bisogna lavorare in modo intelligente anche sui territori, ci sono degli atenei di ottima qualità al Sud (non bisogna per forza essere eccellenti). Però se nelle università non si risponde a logiche e necessità di chi ne fruisce, cioè gli studenti, ma di chi è fornitore di quel servizio sicuramente arrivano i problemi. È un problema anche del discorso pubblico, quello di parlare poco dell’esperienza degli studenti, ed è un fattore che sicuramente gioca un ruolo nell’ambito delle discrepanze territoriali.

C’è un altro problema, però, su cui si baserà la nostra prossima indagine: la demografia del Paese sta cambiando, e questo impatterà pesantemente su molti atenei. Il Sud Italia presto sarà l’area del Paese dove ci saranno meno diciannovenni, e ti lascio immaginare cosa questo vorrà dire per quell’ecosistema universitario…

 

(con la collaborazione di Luca Pagani e Giovanni Tiriticco)

Articolo di Pietro Forti