Gli studenti si sono mobilitati, le istituzioni no

Le proteste degli studenti sono state tante e molto diffuse. Una risposta decisa delle istituzioni, nazionali e locali, si sta facendo attendere

A distanza di quasi un anno dall’inizio della pandemia da Covid-19, gli sforzi, le rinunce e le promesse fatte dal Governo per fronteggiare e risolvere la crisi economico-sanitaria, nonché sociale e culturale, sono stati motivo di stanchezza, malcontento e intolleranza generale. In tutto il Paese si susseguono manifestazioni e proteste da parte dei settori più in difficoltà. Il mondo scolastico, in prossimità del rientro previsto per le scuole superiori a partire dal 18 gennaio, non è stato da meno. Studenti e studentesse in tutta Italia, più d’ogni altro protagonisti della scuola, hanno manifestato contro l’evidente impreparazione da parte delle istituzioni nel garantire condizioni e mezzi per la dovuta sicurezza.

L’incomprensione e il dissenso degli studenti aveva iniziato a prendere forma già dall’inizio dell’anno scolastico. Nella maggior parte delle città italiane, una moltitudine di collettivi si è mossa avanzando richieste, all’apparenza non omogenee ma tutte volte a un solo obiettivo: ridare valore alla scuola attraverso una didattica stabile e adeguata.

Gli studenti e i professori, in sempre più casi con l’ausilio dei dirigenti, lamentano orari scolastici critici, che non permettono un rientro al domicilio compatibile con gli impegni quotidiani di ognuno. A ciò si aggiunge l’affollamento sui mezzi pubblici, visto l’elevato tasso di pendolarità degli studenti ─ ai quali era stato promesso un ampliamento consistente delle corse ─ e in aggiunta la DAD al 50% e al 75%, che comporta una metà o più di studenti in presenza e i restanti collegati da casa. A tal riguardo non mancano problematiche in merito al digital divide e alla partecipazione di ragazze e ragazzi da remoto, poco coinvolti durante la lezione, in condizioni nettamente peggiori rispetto all’applicazione della didattica a distanza al 100%. La soluzione della DDI, per quanto mal digerita, era ormai stata accettata come una realtà dalla maggior parte degli studenti, inevitabilmente più “sicuri” in camera che a scuola.

E in gran parte dei casi, effettivamente, un ritorno alla didattica in presenza ha significato coabitare una “classe pollaio”, cioè un’aula sovraffollata di studenti in un ambiente chiuso. Problematica non attenuata in nessun modo dai recenti governi, malgrado la sua formalizzazione risalga alla riforma Gelmini del 2009, sintomo di un disinteresse istituzionale verso la necessità di coniugare diritto allo studio e ambiente scolastico.

 

A Milano

A suonare la campanella di inizio sono stati proprio gli studenti della capitale lombarda, i quali hanno visto il rientro a scuola, anche se parziale, come una stella cadente svanita in un lampo durato tre settimane. Il 21 ottobre il presidente della regione Lombardia ha firmato un’ordinanza per riportare gli studenti delle superiori al 100% di lezioni in Dad. Scontenti, i ragazzi e le ragazze hanno iniziato a mobilitarsi per rispondere a questa ennesima dimenticanza nei confronti di un luogo lasciato a se stesso per troppo da parte delle istituzioni, a cui non è mancato il tempo per riorganizzarsi. Il 28 ottobre alcuni ragazzi del Liceo Volta hanno organizzato un sit-in in totale sicurezza davanti al palazzo della regione durante l’orario scolastico forniti di dispositivi, caricatori e coperte per affrontare la giornata e continuare le lezioni. Il gruppo, chiamato Studenti Presenti, nel quale sono stati coinvolti subito anche studenti e studentesse di altri istituti, ha continuato le proteste pacifiche insistendo sulla necessità di prioritizzare la scuola e chiedendo un rientro anche in un periodo di zona rossa, nel quale gli studenti sarebbero potuti solo andare a scuola e tornare a casa. Il 12 gennaio quindici ragazzi del Liceo Manzoni, seguiti poi da altri svariati istituti milanesi, hanno occupato la scuola nel pieno rispetto delle norme di sicurezza anticovid. Questa azione, definita necessaria dagli occupanti, ha generato un fortissimo riscontro mediatico, sia esterno che interno all’istituto. Infatti, numerose furono le persone, fra studenti e genitori, che si recarono fuori dalla scuola per mostrare il loro supporto agli occupanti ma fu grande anche il dissenso fra gli studenti che, com’è giusto che sia, non sono un unico coro di voci. Gli studenti, la cui voce è rimasta inascoltata per troppo, hanno rialzato l’attenzione sulla questione scuola segnalando tutte le problematiche di chi la scuola la vive tutti i giorni e che, arrivati a quel punto, ha identificato nell’occupazione o nel presidio l’unico modo per farsi sentire.

 

A Roma

Una tra le prime scuole di Roma a farsi sentire è stato il liceo Kant. Dalla manifestazione dell’11 gennaio sotto la sede del MIUR, passando per i sit-in davanti al proprio istituto, si è arrivati all’occupazione della scuola. A partire dal 23 fino al 28 gennaio, gli studenti hanno tenuto testa a quanti chiedevano lo sgombero. Alla guida dell’occupazione, i rappresentanti e il servizio d’ordine hanno tentato di mantenere il corretto e sicuro svolgimento di momenti assembleari, e allestite di aule studio e di formazione. Non sono mancate le regole, affisse all’ingresso, come l’obbligo di tampone antigenico rapido, l’uso della mascherina e la misurazione della temperatura. A prova di quanto la presa di posizione dei ragazzi sia servita, è arrivata la risposta da parte delle istituzioni. Per cominciare è stata ripristinata la connessione internet, da tempo assente, poi sono stati aperti più ingressi, allungato l’orario su sei giorni e posticipata l’entrata così da evitare l’assembramento, infine il presidio ASL richiesto si è da poco stabilito nel cortile della scuola per contenere il contagio.

Diverso è stato l’epilogo al liceo Socrate. Dopo due settimane di proteste, il 30 gennaio, gli studenti sono rientrati in una scuola priva di riscaldamento e impianto elettrico. Come conseguenza, le lezioni sono state sospese e il malcontento degli studenti si è amplificato. Fino a pochi giorni prima, i ragazzi e le ragazze del liceo, insieme ad alcuni professori, si erano ritrovati in piazza durante gli scioperi per creare uno spazio di confronto. Infatti, malgrado l’assenza di giudizio del dirigente riguardo le manifestazioni dei suoi studenti, parte dei docenti si è unita alla protesta.

Similmente il liceo Pilo Albertelli, ascoltando l’eco del Kant, quindi occupando l’edificio scolastico il 29 gennaio, ha ricevuto l’appoggio del collegio docenti che si è opposto alla decisione del preside di disporre la DDI durante la protesta – gesto peraltro considerato illecito da una nota sindacale della CGIL. A parte la delusione per l’atteggiamento del dirigente, una dei rappresentanti degli studenti nel Consiglio dell’Istituto ha affermato che l’ambizione della loro contestazione era ricevere un’attenzione mediatica capace di comunicare la preoccupazione degli studenti non tanto verso le criticità della loro specifica scuola, ma verso quelle della scuola come istituzione.

 

A Napoli

A fine gennaio, anche Napoli s’infuoca: arrivano 3 occupazioni in una settimana. Il primo istituto ad essere occupato è il Liceo Scientifico Arturo Labriola, seguito dal liceo Giambattista Vico e, sulla stessa linea degli studenti medi, dalla facoltà di Lettere dell’università Federico II.

In questa situazione complessa, le richieste degli studenti sono semplici e collettive: una scuola in sicurezza in cui ci siano presidi medici per tutta la comunità studentesca, una tutela dell’edilizia scolastica, una soluzione adeguata alla dispersione scolastica. «Vogliamo di più dello scarica-barile delle istituzioni. L’occupazione è un gesto di forza, posto al culmine di un percorso che portiamo avanti già da mesi». E infatti, già il 27 novembre, il 1° dicembre e il 9 gennaio gli studenti di diversi licei napoletani avevano seguito le lezioni (con la loro personale attrezzatura digitale, sedia e libri) fuori i due licei di Napoli poi occupati. Successivamente, queste azioni vengono accompagnate anche da svariati presìdi, tra cui quelli all’esterno degli Uffici della Regione (15 gennaio) e degli Uffici Scolastici della Regione (25 gennaio). «Un percorso che, però, non è ancora terminato: anche se noi studenti abbiamo fatto già molto, ciò non vuol dire che ci fermeremo», continuano i membri di O.P.S. (Osservatorio Popolare Studentesco di Napoli). E chiedono di più: una nuova gestione dello spazio scolastico, che diventi polo culturale di nozioni e soprattutto di reale confronto: «Tornare in presenza è il primo passo: noi studenti siamo lungimiranti».

Ma la dimensione prettamente liceale si apre ad una realtà ben più vasta: anche gli studenti universitari della facoltà di Lettere scioperano con studenti medi e lavoratori, ed il 29 gennaio occupano la sede di Porta di Massa per tornare a seguire i corsi e a studiare in sicurezza, e per recuperare gli spazi desolati e abbandonati. L’appello diventa collettivo, gli studenti degli atenei umanistici richiamano alla collaborazione anche gli studenti di economia, medicina, ingegneria e qualsiasi facoltà pronta a partecipare e a collaborare.

Tutto ciò segue una linea nazionale, quella degli scioperi del 29 gennaio in tutta Italia. Iniziativa lanciata da SiCobas e i lavoratori, sostenuti ed affiancati da studenti e disoccupati, lo sciopero si configura in una dimensione di fronte comune che rispecchia la generale volontà di sapere e comprendere dove è stato e sarà direzionato il flusso di denaro del Recovery Plan italiano.

A Torino

Anche a Torino le proteste degli studenti proseguono da mesi. Le mancanze del sistema dell’istruzione pubblica hanno portato i vari gruppi studenteschi in piazza già dal 25 settembre, a circa dieci giorni dal rientro in classe, con uno sciopero organizzato da Fronte della Gioventù Comunista (FGC), Kollettivo Studenti Anonimi (KSA) e Opposizione Studentesca d’Alternativa (OSA). Da allora le azioni non si sono mai fermate: il Laboratorio Studentesco (LaSt) e Priorità Alla Scuola (PAS) organizzano, a partire dal 3 ottobre, azioni simili a quelle che poi si vedranno nelle altre città italiane, come presìdi, manifestazioni e le mattinate di lezioni a distanza in piazza. Queste ultime iniziative, promosse in particolare da Schools For Future, nato da una studente delle medie Calvino, si sono svolte ogni giovedì in novembre e dicembre inizialmente davanti al liceo classico e linguistico Gioberti, ma si sono ampliate e spostate davanti alla sede della Regione Piemonte in Piazza Castello da metà novembre, quando la dirigente dell’istituto ha vietato tramite una circolare di assistere alle lezioni in didattica a distanza davanti alla scuola. Il 26 novembre, durante una delle proteste, si arriva addirittura a un faccia a faccia con il Presidente della giunta regionale Cirio, sceso per incontrare gli studenti. Si arriva poi a un colloquio per studenti di LaSt e SFF con la Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati del 9 dicembre. 

Le proteste sono anche diventate spesso occasioni per affrontare un discorso più ampio sull’istruzione, sfociato nel lancio anche a Torino a inizio gennaio del progetto Cantiere Scuola, che si propone addirittura di ripensare da zero il concetto di scuola per buttare giù quella di oggi e ricostruirne una migliore. 

Le contestazioni, dunque, non si sono mai interrotte, raggiungendo ancora alla fine di gennaio una grande partecipazione al già citato sciopero nazionale del 29 gennaio indetto dai lavoratori del SiCobas, partecipato in particolar modo da FGC e KSA. La parola d’ordine, in questo caso, è uguale in tutta Italia: “occupiamoci della scuola!”.

 

Il mondo della scuola è in subbuglio, ma diviso

Nonostante la mobilitazione degli studenti abbia avuto una voce forte, i contesti completamente differenti tra città e regioni e la mancanza di una “regia” unitaria hanno fatto sì che richieste e punti cardine della protesta siano stati eterogenei. A ciò si aggiungono prese di posizione particolarmente distanti tra loro da parte delle altre componenti del mondo della scuola.

«È giusto che gli studenti protestino, perché le istituzioni hanno abbandonato la scuola, creando obbrobri come 27-28 studenti in una sola classe. E tuttavia, anche quando le proteste e le occupazioni avevano parole d’ordine sensate come “meno studenti per classe” le occupazioni non hanno funzionato». A parlare è Mario Rusconi, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi nella Regione Lazio. «Ci sono dei complici dell’epidemia, cioè le istituzioni. Le soluzioni sono insufficienti. A Roma sono stati messi a disposizione i drive-in per gli studenti, ma sono scomodi per chi ne deve usufruire». E anche se, ironicamente, l’obbligo di tampone antigenico è stato posto dagli studenti che hanno occupato scuole come il Parini di Milano o lo stesso Kant di Roma, per Rusconi «immagini come quelle che arrivavano dall’occupazione Kant, con studenti tutti appiccicati e senza mascherina, non sono accettabili. Non si può protestare per il rientro a scuola sicuro e occupare, è una contraddizione». Per Rusconi la risoluzione deve essere istituzionale: «Abbiamo sempre chiesto alle istituzioni di migliorare la situazione in questa pandemia, ma intraprendere un cammino insieme è difficile se per trent’anni si sono ignorate certe problematiche».

Nonostante i dubbi generali sulla risposta delle istituzioni, Rusconi sintetizza: «La scuola è un luogo sicuro, è quello che succede all’esterno degli edifici scolastici ad essere pericoloso».

Più sensibile alla contestazione degli studenti è stata la CGIL, che ha mediato tra personale scolastico e tavoli prefettizi durante la riorganizzazione del rientro a scuola. Per il segretario di Roma e del Lazio Eugenio Ghignoni «non è giusto presumere che gli studenti siano meno responsabili», e perciò bisogna intervenire sulle occupazioni con prudenza, per evitare che si ripetano episodi come quello del liceo Kant di Roma. L’origine dei problemi che generano tali proteste, secondo Ghignoni, è l’unilateralità con cui agiscono il MIUR e le Asl. «Nonostante il ministero dell’istruzione sia in alcuni casi obbligato a informare i sindacati, tale comunicazione avviene a stenti», spiega il segretario, «il che è risultato, nello specifico di quest’anno, nella grave mancanza di organico scolastico».

Ghignoni è di avviso differente anche sulla sicurezza all’interno della scuola (messa peraltro in discussione dai recenti dati pubblicati di Wired). «Per quanto tramite l’iniziativa “scuola sicura” sia stato possibile un controllo dei contagi all’interno delle scuole, le associazioni hanno concesso il drive-in per studenti e personale scolastico solo dopo tre mesi dalla richiesta del sindacato. Per la CGIL l’inadeguatezza riguarda anche i dispositivi di sicurezza: è necessario introdurre l’obbligo di mascherine FFP2, considerando dinamiche come la vicinanza tra studenti disabili e docenti di sostegno». Ma a dare lo schiaffo finale è, a detta di Ghignoni, «l’autonomia regionale che, lasciando un grande margine di scelta alle singole giunte, fa sì che come il sistema sanitario anche il sistema scolastico entri in crisi».

 

E le istituzioni?

Le proteste viste in tutta Italia sono senz’altro eterogenee. E altrimenti non potrebbe essere: i collettivi, le sigle, i singoli che si sono mobilitati l’hanno fatto quasi in maniera del tutto autonoma, rivolgendosi sì ad una condizione critica in tutta Italia, ma estremamente frammentata in quanto a istituzioni competenti.

Anche in casi completamente scollegati e del tutto differenti nelle richieste (come quelle di alcune classi dell’Istituto Paolo Borsellino e Giovanni Falcone di Zagarolo, provincia di Roma, che hanno addirittura richiesto esplicitamente di continuare a seguire le lezioni in DDI per non rientrare a scuola in un contesto non sicuro), studentesse e studenti hanno esposto in maniera forte le falle della scuola pubblica.

E per quanto eterogenea possa essere la protesta, la risposta delle istituzioni locali non potrebbe che essere forte e unitaria. Così non è stato: laddove ci sono stati miglioramenti, come nel caso del Kant, non si può non parlare di casi isolati. Poche Regioni si sono mosse in aiuto di una scuola in sicurezza. E al livello ministeriale, forse complice la completa instabilità politica, la risposta è stata poco più che nulla.

Una didattica stabile e sicura, e dunque un diritto allo studio sano, non è mai sembrata così lontana.

Articolo di di Federica Fiorilla, Livia Vanella, Mila Dommarco, Camilla Panniello, Pietro Forti