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Come procedono gli studi di genere in Italia
Una panoramica passando dalle piazze, dalle Università, e dai luoghi virtuali
I dati, soprattutto quando si affrontano argomenti quali l’istruzione scolastica ed accademica sono imprescindibili. Ma, la società contemporanea presenta un livello di complessità maggiore, difficile da codificare quando i cambiamenti sociali viaggiano ad una velocità minore rispetto agli indicatori statistici. Un fatto che emerge poco dai dati ma che ha delle cause e delle conseguenze nella società italiana é che il livello di riconoscimento istituzionale degli Studi di Genere sia molto basso. L’approccio interdisciplinare e intersezionale degli Studi di Genere avvicina, in Italia ed altrove, le studentesse e gli studenti ai significati culturali, sociali e storici, ben visibili sfortunatamente solo ad un porzione “accademica”, sostenendo i pilastri della libera sessualità e dell’identità di genere, analizzando le caratteristiche dei movimenti femministi e del loro sviluppo ed alla ridefinizione dei ruoli di potere a qualsiasi livello si possa pensare.
Timidi ed embrionali
La nascita degli Studi è di nazionalità americana ma, presto o tardi, si diffusero in tutta Europa. Sebbene siano presenti corsi, centri di ricerca e master sparsi tra gli atenei della nostra penisola, essa non è tra i Paesi più virtuosi nella promozione di questa materia accademica: basti pensare che sono totalmente assenti lauree di primo o secondo livello specifiche. Gli Studi di Genere, infatti, lamentano una fisionomia ancora indefinita, causata da una tardiva legittimazione istituzionale di questi studi a livello universitario rispetto ai Paesi dell’Unione Europea e la trasmissione degli stessi è segnata da una perenne discontinuità causata da un piano di formazione dal profilo incerto sin dai primi anni 2000, Le cause di questa tardiva istituzionalizzazione sono da ricercare nelle piaghe della storia del Movimento femminista italiano degli anni ‘70 e ‘80. Il genere cela una gerarchia connessa alle relazioni di potere e il processo di costruzione della propria identità ha come punto di partenza il presupposto che donne e uomini siano gerarchicamente ordinati perpetuando l’esistenza di una asimmetria sociale. L’università era e rimane un luogo di potere e crocevia di dibattito non solo istituzionale ma culturale. Luisa Muraro, ricercatrice dell’Università di Verona ed esponente del pensiero femminista di quegli anni, preferì non accettare gli avanzamenti di carriera all’Università come segno di rifiuto di un’istituzione principalmente maschile. All’interno della linea separatista di non “entrare” nei luoghi accademici risiedeva la riflessione che donne e uomini non riescano a sfuggire al modello patriarcale e sessista imposto dalla società dell’epoca; per questo motivo, era necessario creare e avere spazi separati dagli uomini in cui confrontarsi in modo da acquisire una piena autodeterminazione La questione riemerse negli anni ‘90 con la volontà di valutare nuovamente alcune riflessioni storiche pregresse riguardo all’inserimento degli Studi di Genere tra i banchi, ancora vuoti, delle università italiane. Da una parte, studentesse, professoresse e attiviste vedevano grandi benefici dall’istituzionalizzazione, dall’altra, invece, coloro che ritenevano che era preferibile lasciare fuori dall’ambito accademico questo campo di saperi per mantenersi fedeli al “femminismo precedente”.
Tuttavia, non esistono solo motivazioni di tipo ideologico che hanno rallentato l’ingresso degli Studi di Genere nei programmi universitari italiani: la scarsa dinamicità e l’invecchiamento del corpo docente hanno portato a una più ostile accoglienza degli stessi, e quindi ad una tardiva legittimazione all’interno del corpus accademico. Senza dimenticare, la costante mancanza di fondi dell’istituzione accademica stessa che da sempre ne è stata segnata.
Le università sicure le fanno le donne che le attraversano
È stato quindi grazie a una scelta di donne femministe come Carla Lonzi che si è deciso di non scendere a patti con quel potere: “l’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione. Non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità”, sostiene la scrittrice nel saggio “Sputiamo su Hegel” del 1970. Ed è questo essere fuori dalla cultura istituzionalizzata del maschile che si apre la libertà, una tabula rasa in cui le donne possono riscrivere la storia e la cultura.
Roberta Paoletti, docente del master “Studi e Politiche di Genere” di Roma Tre e redattrice della rivista femminista DWF, afferma che questo problema non è solo del mondo universitario, ma di tutti i luoghi in cui si sfrutta una posizione di dominio di alcuni verso altri. Secondo la docente, “l’accademia è un luogo di potere di vecchia fattura”, dove si instaurano delle relazioni anacronistiche: in un mondo interconnesso come il nostro, dove l’obiettivo di molte aziende è la creazione di rapporti di lavoro orizzontali più snelli e paritetici, nelle università spicca ancora, ad esempio, il ruolo del “docente di riferimento”, un incarico assegnato dal coordinatore del corso di studi con il compito di seguire il percorso di una dottoranda o di un dottorando verso la docenza. Il percorso passa quindi attraverso il benestare di questa figura di riferimento, la sola ad avere potere decisionale.
Inoltre, in una ricerca dell’Università di Roma Tre risalente al 2012, si evidenzia un processo di femminilizzazione di chi insegna i Gender Studies: l’87% dei corsi erano tenuti da donne. Secondo Paoletti la domanda se i maschi possano o no insegnare i Gender studies all’università – che abbiamo aperto noi durante l’intervista – ha una matrice politica. Non si tratta infatti di una questione di diritto, ma di autorevolezza politica. I maschi, al contrario delle donne non hanno alle spalle una storia di movimenti e gruppi e collettivi che hanno ragionato politicamente su questioni di genere, sebbene alcune realtà maschili esitano.
Il “soffitto di cristallo” europeo accademico forse ha una crepa
Guardando al contesto europeo, in cui non sono pochi i diversi approcci al tema, risulta evidente l’importanza che viene data all’identità di genere nelle politiche di assistenza sociale: per esempio, paesi che adottano storicamente un modello socialdemocratico come quelli scandinavi hanno sviluppato più precocemente un’integrazione dei Gender Studies come ambito della ricerca di base a livello accademico.
Allo stesso modo una diffusa enfasi sull’economizzazione del discorso sull’equità di genere, presente nel dibattito pubblico e nella retorica statale fin dai primi anni ‘80 in Inghilterra, ha generato una declinazione più neoliberale degli Studi sul Genere con una tangibile conseguenza di approcci alla crescita economica, al capitale umano, all’efficienza e alla produttività aziendale. L’interesse di investitori privati è infatti catturato unicamente dall’esistenza di indicatori socio-economici di cui si può seguire l’andamento, non è altrettanto acceso quando si tratta di reagire in conseguenza ad un report qualitativo.
Il femminismo liberale è, in realtà, una corrente di pensiero molto variegata e che spazia, secondo la definizione dello Stanford philosophical dictionary, dal “classical liberal feminism”, che definisce la libertà in modo negativo come assenza di forze coercitive, al “new liberal feminism” caratterizzato da una definizione positiva dettata dall’effettiva presenza di possibilità di autodeterminazione. Tra le due, come spesso accade, c’è una scala di grigi che passa attraverso molti e diversi compromessi con il sistema capitalista.
Infatti, l’attuale “Strategia per la parità di genere 2020-2025” della Commissione Europea è basata sui rapporti delle Direzioni Generali in cui vengono analizzati i dati disaggregati, in questo caso per genere, raccolti dagli Stati membri nel quinquennio 2015-2020. Sono stati quindi definiti sei obiettivi volti al raggiungimento della parità di genere con l’invito, sia agli organi europei che agli Stati membri, a procedere tempestivamente dal momento che i traguardi raggiunti finora sono scarsi e poco incisivi (basti pensare all’indice sull’uguaglianza di genere, si rileva solo un timido +5,4% dal 2005 ad oggi).
Gli impegni presi e tradotti in budget EU 2021-2027 riguardano la lotta alla violenza e ai pregiudizi di genere, l’estinzione del gender gap nel mercato del lavoro, la parità nei ruoli dirigenziali della società e la promozione dell’intersezionalità della prospettiva di genere, ed è stata creata una task-force per la parità. Gli ambiti d’intervento sono monitorati con un approccio prevalentemente quantitativo mirato a catturare l’interesse del mercato, nella speranza che la questione di genere possa avere più impatto di quello che otterrebbe altrimenti.
La tendenza delle politiche europee pare in favore della rincorsa di obiettivi di crescita strategici ascritti alla logica di mercato, tra i quali rientrano le università e la formazione di capitale umano, infatti, come affermato dalla Commissione, il raggiungimento della parità di genere è “un potenziale che va sfruttato”. Il riequilibrio dei rapporti di forza che hanno causato le disuguaglianze attuali è procrastinato.
Andando a ritroso, nel 1996 è stata adottata in Europa la definizione ufficiale di gender mainstreaming ovvero quel processo che porta alla totale integrazione tra ogni sfera economica-politica e la questione di genere. I progressi legislativi, come sottolineato dalla fondazione “European Institute for Gender Equality” (EIGE) nel 2007, sono indubbi ma la predominanza di priorità economiche neoliberiste rende arduo, ancora una volta, trasformare delle politiche per la parità in un effettivo trattamento equo poiché la questione di genere necessita di un’analisi trasversale oltre che empirica, considerando l’approccio di gender sensitive.
I dati raccolti negli anni non sono considerati particolarmente soddisfacenti e dunque anche all’interno dell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile 2030 dell’ONU è stata inserita la Gender Equality come quinto di 17 obiettivi (SDGs) e sono stati avviati programmi finanziati da un fondo ad hoc in alcuni paesi low-income. Il rapporto dell’UN Women “Turning promises into action” del 2018 sottolinea che gli indicatori utilizzati finora non sono adeguati per i monitoraggi sensibili al genere, perché non viene considerata l’intersezionalità della questione. Secondo quest’analisi è necessario estendere a tutti gli SDGs la questione di genere e migliorare la qualità dei dati e delle statistiche al fine di dare la priorità agli aspetti più critici e divergenti degli intenti dell’Agenda, rendendo effettiva la sensibilità al genere, in primis, all’interno delle istituzioni.
Una prospettiva non eurocentrica
Fuori dall’Europa, i Gender Studies hanno avuto uno sviluppo cronologico, oltre che politico, a tratti diverso da quello occidentale.
In Medio Oriente, negli ultimi vent’anni è avvenuto un processo decisivo di mainstreaming della materia, segnando la nascita di due journals di ricerca sul tema quali l’”Hawwa” e il “Journal of Middle East Women Studies”, e svolgendo numerosi convegni e conferenze con ospiti internazionali. La metaletteratura sui Gender Studies mediorientali sembra aspirare ad una visione più consapevole del peso dell’impronta colonialista conservando una memoria storica a livello societario. Esponente di questa corrente è Liat Kozma che scrive come la Transnational History sembri essere una prospettiva verso la quale si sta muovendo più di una corrente degli Studi di Genere in Israele: i fenomeni sociali non vengono analizzati in quanto appartenenti alla storia di una nazione, bensì come fenomeni intersezionali e dipendenti tra loro, facendo così diventare molto più marginale il ruolo dell’Europa, pur tenendo in considerazione le esperienze di incontro e scontro culturale grazie all’applicazione di principi come quelli della Standpoint Theory (l’importanza delle esperienze personali nel costruirsi la propria cultura). In quest’ottica si valorizza il punto di vista dei gruppi marginalizzati o oppressi poiché si tratta di un punto di vista esclusivo, di un “outsider-insider” che osserva le dinamiche di comportamento degli oppressori insider facendo emergere dei pattern prima sconosciuti.
Quanto è concreta la Quarta Ondata
Questa mancanza strutturale dell’approccio di gender sensitive nel panorama italiano viene spesso tradizionalmente colmata dall’azione di corpi intermedi come associazioni di volontariato, dall’educazione tra pari o in famiglia e attualmente uno dei luoghi dove prolifera di più la diffusione di saperi sul genere sono i social network.
Instagram, in particolare, offre delle buone possibilità espressive per svolgere un lavoro di sensibilizzazione e informazione; con un’ovvia facilità di aprire un profilo in cui quotidianamente viene pubblicato qualcosa di breve e accessibile, piuttosto che entrare in un circuito accademico di pubblicazioni. Certo, il tipo di lavoro è diverso e la diffusione di informazione da parte di singole persone senza un processo di revisione di presupposti metodologici alla ricerca non è priva di criticità: la molteplicità di fonti informative e la natura effimera dei contenuti, che nel feed vengono immediatamente sostituiti da nuove informazioni, disorienterebbero chiunque si volesse approcciare a questo tipo di informazione.
Inoltre, la creazione di bolle informative stimola la tendenza all’ipercategorizzazione e divisione, che rischia di trasformare la riflessione sulle dinamiche di genere nell’ennesimo campo di battaglia delle retoriche identitarie.
Tuttavia, Eugenia Fattori – @eugenialauraraffaella – che è un’attivista femminista, oltre che nella sua vita personale, dagli anni ’90, anche online, si è avvicinata al mondo dei social dapprima a Facebook per poi spostarsi definitivamente su Instagram, in seguito allo svilupparsi di un clima insostenibile sul primo social network. Fattori afferma che usare i social per fare divulgazione è utile e Instagram è uno strumento efficace, ma da solo non è sufficiente. Il mondo reale, però, è stato costruito in modo tale da impedire alle donne di portare avanti le proprie istanze, invece nel mondo virtuale moltissime donne hanno trovato uno spazio in cui poter prendere la parola. Infatti, oltre all’educazione riguardo le tematiche di genere, su Internet si sta mettendo in atto un’operazione femminista anche dal punto di vista pratico. Durante l’intervista, Fattori sostiene che: “forse non è abbastanza, è vero, forse non si arriverà mai alla parità come la sogniamo, ma già utilizzare i social così è una vittoria: abbiamo craccato il sistema”, spesso, non si evidenzia a sufficienza che uno degli aspetti più positivi di Instagram è che ci siano moltissime donne (ed altrettanti uomini), conseguenza del fatto che è un social nato per vedere e farsi vedere, e che a un certo punto le stesse abbiano iniziato a parlare di femminismo in modo spontaneo. Sono dunque riuscite a trasformarlo in uno spazio inclusivo, dove aprire discussioni e dove si è riscoperto il concetto della sorellanza. La costruzione di un gruppo coeso è uno degli aspetti più rivoluzionari e trasformativi dell’attivismo sui social, nonché un modo per superare la stereotipata competizione femminile considerato lo spazio infinito e senza pareti.
Secondo Fattori, il femminismo è esposto all’errore poiché “capita di capire male un concetto e divulgarlo male, ma è un percorso in cui anche quando qualche concetto – o post – è sbagliato può far scaturire la voglia di approfondimento” ed i social al momento sono un posto tangibile in cui per esso c’è spazio.