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Gli stupri di guerra portano il conflitto sul corpo delle donne
«C’è stata una breve conversazione. Poi c’è stato un rumore, uno scoppio, come un fuoco d’artificio. Il mio corpo tremava. I soldati dissero reciprocamente i loro nomi (Danya e Oleg) e poi aggiunsero: “guarda chi stiamo andando a scopare”». Nika è una donna ucraina di 41 anni, che ha rivelato alla CNN di essere stata violentata da un soldato russo di 19 anni. Per questa testimonianza, e per le centinaia che non vengono fuori per paura o impossibilità a farlo, è necessario che la discussione sugli stupri di guerra torni ad essere una priorità per la comunità internazionale.
Gli stupri di guerra sono vecchi tanto quanto la guerra stessa
Il campo di battaglia non si esaurisce in trincea o nelle strade, ma arriva fin dentro le case dei civili; e i bombardamenti non sono le uniche armi che vengono usate per annientare il nemico, anche la violenza sessuale lo è. Nonostante gli stupri di guerra siano da sempre stati considerati prima come bottino e poi come strategia offensiva, non da subito sono stato riconosciuti in questo modo. Infatti, solo a partire dalla seconda metà del Novecento è stato condannato dalla comunità internazionale come “arma di guerra”. Se, infatti, già nel 1907, nel Regolamento della Convenzione dell’Aja, si obbligava gli Stati firmatari a rispettare “l’onore e i diritti della famiglia” durante l’occupazione di territori stranieri, è dopo il silenzio sul tema da parte dei Tribunali di Tokyo e Norimberga, alla fine della Seconda Guerra mondiale, che si comincia a problematizzare la questione.
La prima presa di posizione legislativa arriverà solo nel 1949, con la Convenzione di Ginevra. Ma il corpo delle donne non è ancora il centro del discorso. Ad essere incriminata, infatti, è “l’offesa al loro onore e, in particolare, contro lo stupro, la coercizione alla prostituzione e qualsiasi offesa al loro pudore”. Parole come onore e pudore rimarranno nei testi delle convenzioni per decenni, superate unicamente dall’esperienza dei Tribunali istituiti ad hoc nell’ex-Jugoslavia (1993) e nel Rwanda (1994) per casi di violenza di genere di massa.
È in queste occasioni che appare, per la prima volta, il termine “stupro etnico”. Le donne violentate durante le guerre dei balcani saranno circa 60.000, e nel genocidio dei Tutsi saranno centinaia di migliaia le donne coinvolte. Secondo la dottoressa Catherine Bonnet – psichiatra infantile francese che operò in Rwanda in quegli anni – le gravidanze associate a degli stupri di guerra si aggiravano intorno a 25.000. Spesso le donne venivano violentate in pubblico e uccise dopo essere state stuprate. Nelle sopravvissute, il 70% si ammalò di AIDS. Da quel momento in poi, lo Statuto della Corte Penale Internazionale, comprese lo stupro e “qualsiasi violenza sessuale di analoga gravità” (art. 7) come crimine contro l’umanità, qualora fosse commesso in modo diffuso e sistemico. Solo nel giugno del 2008, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condanna ufficialmente gli stupri di guerra come arma.
Il complesso iter che ha dovuto subire il riconoscimento dello stupro di guerra come arma di guerra non è scindibile dal sistema culturale che ha portato alla tematizzazione del reato di stupro all’interno dei vari stati. Non è difficile immaginare come la violenza ai danni del corpo della donna, nel diritto internazionale, fosse contro il decoro e il pudore fino alla metà degli anni Novanta, quando in Italia fino al 1981 era previsto nel diritto penale il matrimonio riparatore e il delitto d’onore. Che la donna fosse il reale soggetto dell’abuso, e che il danno non avesse niente a che vedere con l’integrità del lustro della famiglia di appartenenza, è stata una conquista che si è ottenuta, almeno in Italia, solo in seguito alle lotte dei movimenti femministi degli anni Settanta e Ottanta. Come dice l’autrice Grace Isabel Colborn nel 1914, “il punto di vista militare è quello del disprezzo della donna (..) è questo spirito del militarismo, la glorificazione della forza bruta, che ha tenuto la donna in schiavitù politica, legale ed economica”. La donna è da sempre stata considerata proprietà dell’uomo e quindi, lo stupro, prima che una violazione di loro stesse e del loro corpo, era la violazione della proprietà del vero nemico: un altro uomo.
Cosa sta succedendo in Ucraina
“Siamo di fronte al triste fatto che la guerra è sempre stata associata a forme distintive di violenza contro donne e ragazze. Mentre cercano di sfuggire ai conflitti, donne e ragazze diventano ancora più vulnerabili, minacciate da violenze, aggressioni sessuali e stupri. Le donne e le ragazze in fuga dal conflitto necessitano di sostegno e protezione specifici”, sono le parole della Segretaria Generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejcinovic Buric, a commento dei recenti fatti avvenuti in Ucraina.
La situazione attuale delle vittime di abuso nella guerra di conquista russa non stupisce, ma deve comunque preoccupare. La Difensora civica dei diritti umani del Parlamento ucraino, Lyudmila Denisova, ha dichiarato che “ci sono state 700 segnalazioni dal primo aprile” per quanto riguarda casi di stupri di guerra. La Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, ha già documentato 25 casi ufficiali di donne imprigionate e ripetutamente abusate, a Bucha. Oleh Tkalenko, vice procuratore della regione di Kiev, ha dichiarato che ad aprile erano stati rinvenuti 765 corpi nelle città abbandonate dall’esercito russo. Se di questi, il team di medici che si occupano dell’esame delle vittime hanno dichiarato di non avere ancora materiale sufficiente per stime certe di abusi; tra le sopravvissute, Mijatovic ha parlato di 400 denunce per stupri già raccolte.
Oltre alle istituzioni locali, sono le ONG a occuparsi di raccogliere le segnalazioni delle vittime. Attiva per gli abusi sessuali in Ucraina è l’organizzazione WWoW (We are not weapons of war), nata nel 2014, che “mira a trasformare e sviluppare tecniche di lavoro sul campo riguardo gli stupri di guerra e migliorare l’accesso alla giustizia per le vittime”. La fondatrice e presidente Celine Bardet, giurista internazionale specializzata in crimini di guerra, durante un’intervista al Fatto Quotidiano, dichiara che per gli stupri di guerra non si tratta mai di “casi isolati” ma che “dopo una segnalazione, ne seguono altre nello stesso giorno e nello stesso luogo. (..) C’è un obiettivo di distruzione, umiliazione e punizione estrema contro un gruppo. Spesso la violenza è accompagnata da torture”. Per i fatti avvenuti in Ucraina, dichiara di aver ricevuto, dall’inizio del conflitto “segnalazioni di stupri, e dalle descrizioni pensiamo che sia ci sia una forma di sistematizzazione. Quello che non sappiamo ancora è se sono stati pensati a monte e ordinati a livello di gerarchia”.
Ad operare efficacemente nell’ultimo periodo è stata anche l’ONG europea La Strada, che si occupa di violenza domestica, di genere e di traffico di esseri umani. A dimostrazione del fatto che spesso, in fatti emergenziali come questi, sono associazioni del terzo settore a riuscire a intervenire in modo più rapido rispetto a organizzazioni internazionali istituzionalizzate. Lo abbiamo visto in Italia durante la prima ondata di Covid-19, con la prontezza con cui Di.re ha offerto mezzi di sussistenza per le vittime di violenza domestica (ne avevamo parlato qui); e lo stiamo vedendo oggi nella gestione dell’assistenza ai rifugiati ucraini.
La presidente della sezione ucraina di La Strada, Kateryna Cherepakha, in una dichiarazione video su Twitter, afferma che sono diverse le persone che hanno chiesto aiuto in questi mesi e che spesso erano troppo traumatizzate per raccontare i fatti accaduti: “hanno bisogno di supporto, terapia e prima di tutto di riprendersi”. Di fronte al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la presidente ha dichiarato che le chiamate ricevute sono soltanto la “punta dell’iceberg del problema”, e a Radio Popolare ha detto che “anche se mettessimo insieme tutte le segnalazioni raccolte, non potremmo avere un quadro realistico di quello che sta avvenendo (..) Le vittime riescono a denunciare quello che hanno subito solo quando si sentono al sicuro”.
Ma i corpi delle donne non smettono di essere violentati sul campo di battaglia. Una volta sfuggite dalla guerra, diventano terreno di violenza di una legislazione che non vuole tutelarne il diritto all’aborto. La Polonia, infatti, dall’inizio del conflitto in Ucraina, ha accolto quasi 3 milioni di rifugiati, di cui il 90% sono bambini e donne. Alcune di queste hanno subito uno stupro in patria, e non possono accedere alla pratica dell’IVG nel territorio che le sta accogliendo. La legislazione polacca, in materia di diritto all’aborto, è infatti una delle più restrittive d’Europa. Dopo la sentenza del 22 ottobre 2020, le donne possono abortire unicamente in caso di salute per la stessa, incesto o stupro. Nel 2021, solo 300 donne polacche hanno potuto accedere al servizio dell’IVG, mentre Aborto senza frontiere, nello stesso arco temporale, ha aiutato 34.000 donne provenienti dalla Polonia ad abortire. Se, quindi, questa legislazione fortemente restrittiva mette i bastoni tra le ruote a un diritto delle donne polacche, per le donne ucraine – in fase emergenziale – il problema sembra essere ancora più grave. La gravidanza avvenuta da uno stupro, infatti, sarebbe teoricamente garantita dalla legge polacca, ma questa porta con sè una impraticabilità per le donne ucraine. Le difficoltà principali sono due: prima di tutto, l’abuso sessuale deve essere accertato da un magistrato e poi l’aborto deve essere effettuato entro le 12 settimane dal concepimento. Appare evidente come le pratiche e le tempistiche rendano praticamente inapplicabile la legislazione polacca per le donne ucraine rifugiate.
Contro la violenza di genere e contro la guerra
Mentre le donne ucraine vengono violentate durante il conflitto, 45 organizzazioni femministe sparse per tutto il territorio russo si oppongono alla guerra. Mentre gli uomini ucraini vengono uccisi, ci sono due milioni di riservisti russi, oltre ai 900 mila attivi nelle forze armate. La scissione di genere appare evidente. È per questa, e altre ragioni, che l’attivista Ella Rossmann, una delle leader del Movimento femminista russo contro la guerra, ha dichiarato che, ad oggi, la protesta in Russia ha “il volto delle donne”. È infatti nel manifesto di questo Movimento che si può leggere che “il movimento femminista in Russia lotta per i gruppi vulnerabili e per lo sviluppo di una società giusta con pari opportunità e prospettive, in cui non ci può essere posto per la violenza e i conflitti militari. (..) Guerra significa violenza, povertà, migrazioni forzate, vite spezzate, insicurezza e mancanza di futuro. È inconciliabile con i valori e gli obiettivi essenziali del movimenti femminista. (..) Chiediamo ai gruppi femministi russi e alle singole femministe di unirsi alla Resistenza Femminista NoWar per opporti attivamente alla guerra e al governo che l’ha iniziata. Chiediamo anche alle femministe di tutto il mondo di unirsi alla nostra resistenza”.
È quindi la categoria danneggiata dalle logiche della guerra e della violenza, che il movimento internazionale femminista NoWar ha deciso di unirsi per la stessa battaglia. Se gli uomini, da sempre, hanno teorizzato e portato avanti la guerra; le donne hanno sempre svolto ruoli di cura e di marginalità. E se è vero che i movimenti femministi oggi sono “l’opposizione alla guerra, al patriarcato, all’autoritarismo e al militarismo”, forse è alla produzione culturale e politica che questi movimenti offrono che bisogna guardare per ridisegnare il futuro.
Ella Rossman, in un suo articolo per LeftEast, ha raccontato come nel 2010, in Russia, si siano verificati diversi movimenti di opposizione e mobilitazione politica contro il governo di Putin. Questi gruppi però, erano spesso “sessisti e gerarchici come quelli pro-statali”. La politica degli uomini, liberista o statalista, conservatrice o progressista, militarista o antimilitarista, ripropone spesso retaggi sessisti ed escludenti, marginalizzando categorie che non riescono a prendere spazio nel dibattito pubblico. È per questo che i movimenti femministi, oggi più consapevoli e organizzati, hanno deciso di proporre una loro visione politica e di gestione delle relazioni internazionali. Anche in Italia, l’8 marzo è stato sciopero nazionale transfemminista contro la guerra e contro il riarmo. Passate da essere gli “angeli del ciclostile” nella lotta del Sessantotto, le donne hanno oggi compreso che devono pretendere forse spazi separati da quelli degli uomini e dalle loro logiche. Con il “privilegio del margine” di cui parla l’autrice afroamericana bell hooks, le femministe italiane possono permettersi di dichiararsi contro la guerra in Ucraina, contro il riarmo dei paesi occidentali, contro il sistema valoriale della forza e della conquista proprio della cultura patriarcale. Per il movimento femminista internazionale, non si tratta più di scegliere quale guerra è più giusta dell’altra, ma è quella di creare un movimento in grado di opporsi a qualsiasi guerra, e con questa a qualsiasi violenza di genere.
Articolo di Cecilia Pellizzari