“Sulla Razza”, l’importanza delle parole nella lotta anti-razzista

Il nuovo podcast di Nadeesha Uyangoda sarà dedicato alla traduzione e alla contestualizzazione di concetti ed espressioni anglofone di cui il dibattito italiano si è appropriato

I migranti internazionali rappresentano il 3% della popolazione mondiale e, se venissero ipoteticamente radunati in un unico Paese, rappresenterebbero il quinto Stato più popolato al mondo. Sempre idealmente, la mole di tale fenomeno farebbe quindi pensare che esso sia così diffuso da essere trasversalmente riconosciuto, accettato e rispettato. Tuttavia, quotidianamente riceviamo notizie che ci impongono di non pensare in modo idealistico ed ogni episodio è accomunato da un sentimento che rende i migranti dei soggetti non sempre riconosciuti, non sempre accettati, non sempre rispettati.  Tale filo conduttore ha un nome: razzismo.  Dalla scorsa estate, grazie al movimento Black Lives Matter nato in USA e poi espanso all’estero, la denuncia al razzismo sistemico è emersa con maggior veemenza nella discussione pubblica. Se però l’evoluzione culturale si fa visibile, quella linguistica segue arrancando. In Italia mancano i termini specifici per parlare di razzismo, rischiando di stagnare la discussione. Ecco che “Sulla Razza” si fa largo per colmare questo vuoto. Il podcast prodotto da Undermedia e condotto da Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso ha infatti l’obiettivo di tradurre in italiano alcuni concetti ed espressioni come BAME, fair skin privilege, colourism che provengono dalla cultura anglo-americana e che vengono utilizzati anche nel dibattito italiano, senza però che vi sia stata una precedente riflessione sul loro adeguamento a tale contesto o meno. Dal 12 febbraio 2021, nell’arco di sei mesi, usciranno 12 differenti episodi da trenta minuti ciascuno dedicato all’approfondimento di un termine diverso. 

 

Parole: un’arma a doppio taglio

Le parole riflettono la società in cui si vive, ma allo stesso tempo la plasmano. Come evidenzia l’antropologo Samy Alim nel libro “Raciolinguistics: How language shapes our ideas about race”, il linguaggio e il razzismo sono fortemente legati e si definiscono a vicenda. Di conseguenza, non possono essere studiati separatamente. Le parole non sono quindi un mero specchio del contesto sociale che si ritrovano a descrivere, ma dei veri e propri mezzi culturali per riaffermare o decidere di cambiare lo status-quo. Come un pharmakon, le parole possono sì risultare pericolose e acuire le problematiche già intrinseche alla società, ma presentano anche una componente potenzialmente positiva, base indispensabile per il cambiamento. 

Lavorare sulla nostra lingua assume quindi un ruolo importante nella lotta al razzismo, estirpando le erbacce ma anche piantando nuovi semi che possano in futuro germogliare. Per questo, l’introduzione di termini che possano efficacemente descrivere le situazioni in cui le persone discriminate si trovano è fondamentale. Potrebbe sembrare banale, ma altrimenti come si potrebbe parlare di qualcosa che nome non ha? Come diceva Angela Davis, “non è sufficiente non essere razzisti, dobbiamo essere antirazzisti”. E così anche nel contesto linguistico: la (forse) neutralità non basta. L’italiano corrente difficilmente riesce a rendersi uno strumento valido per una solida discussione sul razzismo. Spesso, per ovviare alle lacune semantiche siamo costretti a ricorrere a parole straniere che possano descrivere un concetto attualmente inesprimibile in italiano. Questo perché “le minoranze etniche in in Italia esistono”, come ha dichiarato Nadeesha a Scomodo, “ma non si è creata una conversazione attorno alla multietnicità. Rispetto ad altri Paesi come Francia ed Inghilterra, tale dibattito è arrivato dopo. E quindi è stato più facile prendere parole da quei contesti anziché crearne di nuovi adatti alla nostra società.” Ci si presenta però ora davanti il momento giusto per dirigere la nostra lingua verso una strada che ci permetta di sviluppare un dibattito consapevole sulle tematiche legate al razzismo, anche per influenzare positivamente la trasmissione culturale da generazione a generazione.

 

Come il podcast “Sulla Razza” si propone di contribuire al dibattito

Ogni episodio del podcast non solo propone un’introduzione storica dei termini, ma contestualizza il loro utilizzo nella realtà italiana attraverso l’inclusione di diverse testimonianze e termina con una serie di domande aperte per stimolare riflessioni e dibattito con i fruitori. Come spiegato dalla stessa Nadeesha, l’idea alla base del progetto è quella di coinvolgere le minoranze etniche, dando loro la voce che meritano nel dibattito sulla narrazione del fenomeno razziale. Inoltre, le autrici interpretano questo progetto non come l’esito di un percorso, bensì come l’inizio di una conversazione. In questo senso, la partecipazione e soprattutto la reazione degli ascoltatori e delle ascoltatrici è fondamentale per proseguire. Tramite le pagine social di “Sulla razza” chiunque può avere l’opportunità di contribuire con la propria testimonianza e alcuni messaggi vocali verranno direttamente commentati durante le puntate successive. 

Secondo un sondaggio dell’osservatorio Swg del 2017, il 55% degli italiani pensa che il razzismo possa essere giustificato, il 65% è a favore della chiusura nei confronti degli immigrati, con una conseguente perdita di fiducia per le Ong che li aiutano.  Tutto ciò si riflette sul linguaggio. E, come un circolo vizioso, la mancanza di termini adatti rallenta la possibilità di una discussione conscia che indichi i problemi con il proprio nome, senza lasciarli in una nuvola fumosa. È a questa zona grigia che il podcast “Sulla razza” guarda. Come dichiarato da Nadeesha rispetto al dibattito razziale in Italia “determinate parole o non esistono, o hanno significati diversi rispetto al contesto anglo-americano. Quindi se le stesse persone non-bianche non hanno le parole per descrivere le proprie esperienze e parlare di razzismo e razza, ecco, questo è già un problema; é difficile intavolare una discussione se non si hanno le parole per farlo”. La capacità divulgativa ampiamente dimostrata dai Podcast in quanto strumento di informazione rapidamente in crescita e la produzione di “Sulla Razza” grazie al supporto di Juventus sembrano essere due elementi la cui combinazione potrebbe favorire l’avvicinamento ad un tema così complesso da parte di un pubblico di massa.  

La presa di coscienza del movimento BLM sta mostrando come le discriminazioni su base etnica non sono un fenomeno relegato nè al passato nè ad altre nazioni. Stiamo anzi assistendo ad una nuova forma di razzismo, che il francese Taguieff chiamerebbe “neorazzismo”, la quale, nascondendosi dietro “ingenue” affermazioni di non-assimilabilità tra le culture, riesce ad eludere le barriere simboliche stabilite dalla nostra legislazione. In un periodo storico in cui la destra sovranista si rifà all’ideale del “vivere nel proprio paese”, in difesa di un’identità nazionale prettamente omogenea, è bene infatti chiamare le cose col proprio nome: non si tratta di mere opinioni ma di amari dejavù che minano alla libertà collettiva. 

 

Leggi anche: Le seconde generazioni sono state dimenticate dalle istituzioni

Leggi anche: Intervista a Nadeesha Uyangoda

 

Articolo di Elena D’Acunto e Aurora Grazioli