Per accessibilità si intende la capacità di fornire informazioni fruibili a tutti, inclusi coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari. Abbattere le barriere alla fruizione dei contenuti è il primo passo per permettere a più persone di partecipare e contribuire al cambiamento.
Per questo noi di Scomodo stiamo cercando di inserire strumenti che favoriscano la lettura e la navigazione del nostro sito a quanti più utenti possibile.
Cosa stiamo facendo? Stiamo cercando di migliorare sempre di più l’accessibilità delle informazioni e delle interazioni anche per chi ha necessità particolari: come ad esempio chi può navigare solo con la tastiera, oppure chi ha difetti della vista o disturbi del neurosviluppo che riguardano la capacità di leggere.
Un menu laterale, sempre visibile, ti permette di modificare la visualizzazione della pagina in modo da facilitare la navigazione a seconda delle tue esigenze:
Hai trovato difficoltà? Puoi scrivere a tancredi@leggiscomodo.com.
Il tuo aiuto ci fornirà ulteriori spunti per migliorare l’accessibilità del nostro sito.
Chiudi


Sulla soglia
Appoggio un piede alla volta, cercando la leggerezza nella caduta, mi sento un mammut e non sento più i polmoni. Maledico la dipendenza da sigarette ogni volta che chiedo al mio corpo di fare un movimento appena un poco più impegnativo che spostare una sedia da un capo all’altro del tavolo. Corro una volta ogni morte di papa e oggi ne è morto uno, forse.
Venti minuti dura la mia corsa e poi mi fermo in pasticceria, puzzo e sono impresentabile. Mia madre mi vieterebbe di farmi vedere in un luogo pubblico conciato così, e aver fatto jogging non potrebbe che peggiorare il risultato finale, pazienza! Attendo il mio turno, scelgo due cannoli siciliani, due bignè alla nocciola e un babà pieno di crema per Aida. Cammino verso casa. Starà dormendo o tutt’al più preparando un caffè, con gli occhi socchiusi e la faccia arricciata.
Invece sta scrivendo al computer, in camicia da notte, quella grigia che mi piace, quella che ci aveva fatto dubitare della mia capacità di percepire i colori, che aveva fatto dubitare lei prima e poi me.
«Sei daltonico, è verde acqua, non grigia». mi aveva detto. Io le avevo risposto che doveva accontentarsi, che si sa che gli uomini riconoscono solo cinque colori e le donne infinite sfumature. Rilanciò dicendomi che io non ero come gli altri, che io le sfumature le coglievo tutte, poi mi aveva dato un bacio, se non ricordo male.
Arrivo in cucina, la guardo, sta lavorando al suo romanzo, quello sull’Io, sul corpo.
Aida mi ha insegnato a pensare, invece lei è convinta che mi abbia fornito solo gli strumenti, che mi abbia mostrato la strada per conoscermi meglio. È certa che la capacità analitica, come la chiama lei, è qualcosa che io avevo già. Io, invece, penso che mi abbia contagiato con i suoi modelli, con il suo modo di vedere le cose, di guardarle da più punti di vista, quasi di investigarle, come se all’azione fosse contemporanea la riflessione. Invidiavo la sua intelligenza, tutte quelle domande, talvolta inquietanti, ma che le permettevano di capire gli altri. Il risultato è che sono diventato paranoico, ma ho anche imparato a gestire meglio la mia difficoltà con gli altri, la mia sociopatia.
Aida schiaccia velocemente i tasti del pc mentre ingurgita una manciata di mandorle. Le mostro il vassoio con le paste, sgrana gli occhi, poi si passa la lingua sulle labbra come a pregustarle. Invece di sciogliere il nodo del nastro rompe la carta del pacchetto, prende il babà e gli dà un morso, mi bacia con il rum sulle labbra. Si mette con la faccia sulla mia spalla, mastica, mastica.
«Sono tutto sudato, puzzo».
«Mi piace».
Mi passa una mano tra i capelli, mi ripassa una mano trai i capelli, mi tira la barba.
Quando scrive, la casa diventa un luogo di culto. Si ferma tutto: i piatti nel lavabo, i vestiti fuori dal guardaroba, le luci accese. All’inizio mi dimenticavo che ci fosse per quanto si assentava, per quanto riuscisse ad annullare il mondo fuori da lei. Le invidiavo anche questo, la capacità di riprendere contatto con sé e perdere conoscenza del mondo. All’inizio la interrompevo, pretendevo quello che non mi dava per un bisogno egoistico o per la paura di essere invisibile. Lei mi rimetteva al mio posto, in poco, immediatamente, ripeteva che quello che stava facendo non sottraeva nulla alla nostra relazione, anzi che quel tempo speso da sola l’avrebbe arricchita. Avevo paura del suo mondo interiore, ero geloso del legame che aveva con la penna, con il foglio. Ogni volta era un’indagine, una scoperta di nuove verità, un viaggio dentro sé, con sé e inevitabilmente in me, in noi.
«Nella scrittura, anche se non parlo di me, ci sono io e tutto ciò che mi appartiene, perciò ci sei anche tu,» mi diceva. Io ero terrorizzato all’idea che sarebbero venute fuori risposte che non mi sarebbero piaciute. Aida, più di tutti, ha sempre avuto il potere di terrorizzarmi; la convinzione schiacciante con la quale esprimeva i suoi punti di vista non lasciava spazio a obiezioni. Eppure c’era sempre, tutte le volte che temevo ci stessimo perdendo mi rimetteva al mondo, mi mostrava la strada, mi accarezzava e io camminavo di nuovo.
Insieme siamo riusciti a soddisfare i nostri desideri costantemente, a raggiungere gli obiettivi che ci eravamo fissati, almeno fino ad ora, fino a quando, dopo aver finito il babà, mi dice: «Dobbiamo parlare».
«Ora?»
«Sì, per favore».
Il tono perentorio sembra non ammettere dinieghi.
«Cosa alimenta la nostra relazione?» mi chiede.
Mi sfilo le scarpe e le calze sudate. «Posso fare una doccia e poi parliamo?»
«Puoi farla dopo?»
Mi siedo.
«Se me lo chiedi così su due piedi, non lo so».
«Mi rispondi, per favore?»
«Aida, dai, non ora!»
Non molla.
«E va bene. Il nostro amore? La stima reciproca? I progetti?»
«L’amore passa attraverso cosa?» mi chiede.
«Mi stai mettendo alla prova, Aida?»
«No, Gabriele, è solo una domanda».
«Passa attraverso tutto questo: le nostre passioni, la stima che ho per te, la condivisione della nostra vita. Questo alimenta l’amore che ho per te».
Conosco troppo bene Aida per non capire di essere inchiodato, senza alcuna possibilità di fuga. Lo sguardo che vaga per la stanza, che punta la fronte e poi i miei occhi è quello che riconosco così bene. Anche la ruga della sua fronte mi annuncia il logorio che ha già fatto. Aida può scherzare su cose che per la maggior parte delle persone sono intoccabili, ma su quelle che per lei contano, come pietre bianche riflettenti, mai.
«Abbiamo quarant’anni, quanto durerà ancora?»
«Che stai dicendo, parli di noi?»
«Sì».
«Non capisco dove vuoi arrivare. Durerà fino a quando durerà».
Mi guardo intorno, tento di recuperare fiato
«Oddio, Aida! Non ce la fai a dirmi che hai un altro?»
«Ma che altro! Per favore non deviare, rispondimi. Quindi per te andrà bene se finirà?»
«Ma perché dovrebbe finire?»
«Ho paura di una cosa, Gabriele. Ho paura che a tenere in vita il nostro amore sia la continua smania di fare progetti e poi di impegnarci a realizzarli, di far convergere ogni energia perché i piani non falliscano, di desiderare di vedere un posto e poi vederlo, di comprare una macchina e poi comprarla».
«Che cosa c’è di male in questo?»
«Che vogliamo sempre di più da noi e dall’altro».
«E non è un bene?»
«Non è un bene se ci crea insoddisfazione e non ci permette di fermarci, di ascoltarci. Forse copriamo…»
«Non ti seguo».
«Ci penso e ripenso, e mi spaventa. Temo che quello che c’è, che ci terrà insieme fino a quando durerà, sia l’idea di un progetto che ancora deve venire, un progetto nuovo che se non c’è crolliamo».
Mi metto le mani nei capelli, mi sfilo la maglietta sudata, accendo una sigaretta.
«Allora facciamo progetti fino alla morte».
«Ma davvero, Gabriele, ce li godiamo, viaggi, case, cose? O stiamo già a pensare al progetto successivo?»
«Non lo so, forse pensiamo già a quello successivo».
«E che senso ha? Finiti i progetti, finiamo anche noi. Quando mettiamo fine alla soddisfazione c’è il successivo e poi il successivo ancora. Noi, dove siamo noi? Io e te siamo dunque progetti, anche noi? E se lo siamo, perché è certo che siamo progetti, lo siamo, sì… siamo proprio questi progetti?»
«Aida non capisco, cioè capisco, credo di capire, ma non mi sembra che questo riguardi noi. Non così. Tu parli di progetti e di desideri e i desideri non si esauriscono. Non voglio smettere di desiderare con te».
«Non sto dicendo di smettere di desiderare».
«E allora cosa, cosa?!»
«…che dovremmo custodire i nostri desideri, custodirli… senza soddisfarli!»
«Oddio… in che senso?»
«Credo che dovremmo imparare ad avere più pazienza, meno fretta; forse dovremmo essere più gentili con noi, con la vita, provare a ridurre, a rimandare la “nostra fame”, metterla alla prova… metterci alla prova».
Mi guarda senza abbassare lo sguardo.
Spengo la sigaretta nel posacenere, fuma ancora. Ne sfilo un’altra dal pacchetto, l’accendo.
«Mi stai dicendo di fare dei progetti senza crederci?»
«Sì, in qualche modo».
«Non riesco a capirne l’utilità».
«Non sono matta! Vorrei desiderare delle cose insieme a te ma… senza realizzarle; mi piacerebbe attenderle, pensare che non le faremo mai ma che le desidereremo sempre».
Faccio un tiro dopo l’altro, nevroticamente. Vado avanti e indietro, calpestando il tappeto di iuta.
«Hai idea della frustrazione?»
«Si, ne ho idea, ma la terremo a bada, impareremo a gestirla. E alimenteremo i nostri sogni. L’amore durerà nelle cose che non facciamo».
Le brillano gli occhi, per timore o per altro, prende una matita, la infila nei capelli, si sfila la canotta, rimane nuda, mi abbraccia, siamo corpo a corpo.
«Non voglio perderti».
Sento l’odore del bioscalin che usa come shampoo, si confonde con il profumo che le regalo da anni e il sapore della sua pelle. Mi bacia le ascelle, il petto, le braccia.
«Perché limitarci così?»
«Secondo me non è un limitarci. Pensaci. Desiderare e soddisfare ci consegnano a un limite insostenibile, inaggirabile. Non potersi fermare, essere sempre in corsa è terribile, inutile, da pazzi. Sognare e scegliere di non mettere in moto, di non realizzare, trattenere in qualche modo ci potrebbe rendere più liberi».
La stringo a me, la guardo, i nostri corpi si allontanano, tengo il contatto con la mano sul suo polpaccio.
«Ma è un paradosso, se ci pensi. In realtà sostieni che dovremmo rinunciare a delle cose che ci piacerebbe fare».
«Sì».
«Se riusciamo a fare questo, se rimandiamo, ritardiamo, possiamo ingannare la nostra smania di desiderare che ci travolge e ci uccide».
«È assurdo!»
«Forse, ma ci farebbe stare in pace».
«Ci, Aida? O ti farebbe stare in pace, magari per un po’, fino ad un nuovo cambio di rotta?»
«Non vuoi capire, eh?»
«Perché lo chiedi? Perché questa assurda richiesta, quando tutto va bene?»
«Per continuare ad amarci».
Mi prende tra le braccia, mi tocca la testa andando e tornando con la punta delle dita. Per un po’ mi addormento come un bambino stanco, senza pretese, ma dura poco, pochissimo. Mi sveglio, in preda all’agitazione. Ci metto un po’ a riconnettermi con le cose e a tornare sul piano della realtà. Penso e ripenso, ossessivamente, alla conversazione tra me e Aida, alle sue richieste senza misura. Sono arrabbiato.
«Aida, ehi, Aida… Non riesco a metabolizzare la bomba che hai fatto esplodere stamattina».
Adesso che è sveglia pure lei, mi dirà che si è trattato di uno scherzo, tutt’al più di un banco di prova.
«Ne vuoi riparlare?»
No, non è uno scherzo. La sua faccia determinata dice che non lo è e pure il sorriso che ha negli occhi, calmo, fisso.
«Sono qui, ti ascolto. Intanto preparo un caffè».
«Dimmi se ho capito bene. Mi stai chiedendo di smettere di pianificare le cose che vogliamo fare, ma di continuare a desiderarle? È così?»
«Sì, è così».
«E ora dimmi: che gioco è? Un gioco sadico? Una punizione che mi merito?»
«Ma quale punizione, Gabri!»
«Questa di cui parli… Per quale motivo dovremmo smettere di fare dei progetti se fino ad ora ci hanno resto felici? O forse hanno reso felice solo me? A questo punto dubito pure che ci fossi anche tu, forse ero solo».
«No, non è una punizione. Sai bene che non hanno reso felice solo te, spero tu sappia che quando siamo stati bene, lo siamo stati insieme».
«Perché parli al passato?»
«E dai, non parlo al passato. Pensi che non sono stata felice con te?»
«È quello che viene fuori dalle tue parole. Ti annoi? È una scusa? Non vuoi figli? O è solo il tuo solito modo per farmi sentire insicuro? Quanto ancora dovrò fare? Quando sarai soddisfatta? Quanto prima che tu finisca con il mollare tutto e andartene?»
«Ma che stai dicendo, tu sei mio marito!»
«Sta diventando una condanna essere tuo marito. Un cazzo di lavoro precario che potresti togliermi dall’oggi al domani».
Ruota la manopola del gas, spegne il fuoco sotto la moka, la lascia lì, non versa il caffè. Si siede sul divano, con le gambe chiuse e appoggia le mani sulle ginocchia, inclina la testa, fa un sospiro profondo.
«Perché vuoi rovinare tutto, Aida?»
Adesso guarda fuori dalla finestra, non batte ciglio, poi si alza dal divano, sposta gli oggetti sul tavolino del soggiorno e li riordina, sposta con la mano la polvere che non c’è, riposiziona gli oggetti meticolosamente, li guarda con attenzione, come se quella fosse l’unica cosa da fare, come se io non esistessi.
«Aida!»
Si volta verso di me, rimane in piedi.
«Gabriele, io… io non lo so, ecco! Sono terrorizzata all’idea di perderti. All’idea che un giorno potremmo non essere più felici insieme!»
«Se fossi davvero felice non ci penseresti neanche, a queste cazzate».
Maschero l’ansia, l’angoscia che mi prende, ma non sono molto bravo. In un frammento di tempo immagino quello che sarà la casa vuota, la mia vita senza di lei, la solitudine, le cose che perderanno senso. Alla rabbia si sostituisce la paura. Cancellare, cancellare questa giornata, questo fotogramma, non aver sentito, né intuito la stanchezza, il disamore, la resa dei conti, la distanza…
«Non mi ami più? Dillo Cazzo! È inutile che ci giri intorno. Tu non mi ami più!»
«Cosa stai dicendo? Non direi stronzate!»
Si alza e mi bacia, lentamente. Mi prende il viso tra le mani, mi guarda negli occhi, in fondo, senza fermarsi all’immagine di lei che si forma sulla mia pupilla. Mi abbraccia, senza perdere la disperazione dello sguardo, senza dimenticare che è braccata.
«Aida mi devi dare delle spiegazioni, perderò la testa a starti dietro!»
«Mi chiedo di cosa sia fatto il nostro amore, che cosa sia davvero il desiderio, come mantenerlo in vita».
Mi guarda, senza mai perdere i miei occhi. Mi accarezza il viso, ripetutamente.
«Ho capito, è un’altra delle tue smanie di controllo, un’altra volta!»
Mi alzo in piedi, apro la finestra, tiro una boccata d’aria.
«Noi smetteremo di vivere se smetteremo di fare le cose che amiamo. Moriremo! Morirà il nostro amore, finirà tutto. Come fai a non vederlo? Come fai a non vedere la gabbia! Che viviamo a fare se non possiamo agire, fare, sbagliare? La vita è questa. È sporcarsi le mani, è errori, è rischi».
«Come fai ad essere così tranquillo?»
«Tranquillo, ti sembro tranquillo? Mi togli e mi dai, vai e vieni. No, Aida, non lo sono mai, tranquillo. Con te ti assicuro che è impossibile essere tranquilli.
Ma vivo, cerco di vivere ogni momento. Non è male, Aida, quello che abbiamo; sarebbe ancora meglio se non mi tenessi perennemente sospeso, ma non fa niente».
«Non sospendo niente, e non vado e vengo. Sono qui, con te. Cerco solo di fare chiarezza, di non commettere errori».
«Certo, non commettere errori… È arrivato il cavaliere senza macchia! Sai che fine ha fatto il cavaliere senza macchia? Una brutta fine, bruttissima».
«Non parlarmi con quell’aria e scendi da quel piedistallo».
«Smettila! Vieni qui».
Sono passati due mesi da quella mattina. Abbiamo comprato un’agenda verde, come la speranza, si dice. La teniamo nel primo cassetto del mobile in veranda. Ci andiamo ogni tanto a scrivere, sia io che lei, ci prendiamo una pagina per ciascuno. In alto scriviamo il titolo e nello spazio che rimane raccontiamo il desiderio. La sera li leggiamo, non tutte le sere, ma spesso. Io vorrei un bambino, lei una casa in montagna in Francia – ha già scritto i particolari dell’arredo; io vorrei una distilleria per produrre agave, rum e whiskey, Aida farebbe l’assaggiatrice e la promoter, io il produttore. Lei vorrebbe una casa editrice, io sceglierei come investire i soldi, lei sceglierebbe gli autori, più donne che uomini. Anche lei vorrebbe un bambino, forse una bambina.
Stasera, siamo qui a leggere la nostra agenda verde. Lei è tra le mie gambe, appoggia la sua schiena al mio petto, le ho fatto una treccia a lisca di pesce, mi ha fatto vedere infiniti tutorial su youtube e alla fine ho imparato. Le arriccio i ciuffi che spuntano, lei mi tira piano i peli delle gambe, tiene il segno dei miei desideri. Ci immaginiamo i nostri bambini, i loro occhi.
«Spero che lui non abbia il tuo naso, amore mio».
«E lei, invece, che non abbia la tua terribile capacità analitica»
«Perché no?»
«Perché guarda dove siamo».
«Ma una distilleria dove la vorresti?»
«Pensavo alle colline umbre».
«Ci trasferiamo lì in primavera?»
«Si, in primavera».
«E la tua casa editrice?»
«Letteratura scandinava, donne, femministe, attiviste, che sanno amarsi».
«E qualche uomo?»
«Anche qualche uomo, sì».
«Aida…»
«Si, Gabri?»
Si gira, non mi dà più le spalle, mi guarda, negli occhi, le sposto i capelli dal viso, sorride.
«Siamo liberi».
«Lo siamo».
«Lo voglio lui e voglio anche lei».
«Faremo lui e lei, lui col tuo naso e lei con la mia capacità analitica».