Target migrazione

Rimpatri, hotspot e deportazione: come funzionano gli strumenti europei per controllare le migrazioni?

20/06/2021

La migrazione umana presenta dei connotati comuni quali la ricerca di un luogo più sicuro per la propria incolumità, volta allo scopo economico o di un futuro immaginario ma quantomeno reale. Gli strumenti di controllo utilizzati dagli organi statali e internazionali però fanno emergere qualche dubbio a livello morale. 

 

Primo strumento: il rimpatrio

I crescenti flussi migratori dell’ultima decade hanno colto decisamente impreparato il continente europeo. L’Unione europea gode di limitate prerogative nell’ambito dell’immigrazione e, di fatto, i singoli Stati membri mantengono una larga autonomia nel gestire le migrazioni. Nonostante ciò, negli anni l’UE ha ottenuto un numero crescente di poteri nell’ambito migratorio tra cui la capacità di stringere accordi di rimpatrio con Paesi terzi. Gli accordi di rimpatrio stretti dall’Unione sono al momento solo diciotto, a cui si aggiungono altri sei accordi non vincolanti stretti con altrettanti Paesi terzi. Questi numeri impallidiscono di fronte ai quasi quattrocento accordi bilaterali stretti tra Paesi membri e Paesi extra-Ue e gli accordi bilaterali in corso di negoziazione tra UE e vari Paesi terzi; in particolare, quasi tutti i Paesi dell’Europa del Sud hanno stretto accordi con molteplici Paesi del Nord Africa nel tentativo di limitare i flussi migratori. 

Il rimpatrio avviene solitamente attraverso due procedure differenti: il rimpatrio forzato e il rimpatrio volontario. Una comunicazione della Commissione europea approvata lo scorso aprile esplicita alcuni principi generali a cui si ispirerà la futura strategia europea sull’asilo e l’immigrazione. In particolare, la Commissione si propone di promuovere i rimpatri volontari e la reintegrazione dei rimpatriati nei Paesi di origine. Il coordinamento delle attività di rimpatrio dagli Stati membri è affidato a Frontex, un’agenzia per il controllo delle frontiere europee che si occupa anche di supportare le attività di reintegrazione negli Stati di origine. Inoltre, alcuni degli Stati membri si affidano anche alla European Return and Reintegration Network (ERRIN), un’iniziativa congiunta di quindici Stati membri, la Commissione europea e Frontex. Nello specifico, Errin si occupa sostanzialmente di coordinare le attività di rimpatrio degli Stati partecipanti e di fornire supporto (economico e non) ai rimpatriati una volta giunti nel Paese d’origine. Benché le attività di Errin costituiscano un approccio innovativo alle politiche di rimpatrio, il loro impatto è limitato, i costi sono alti e l’efficacia è ancora da dimostrare.

La Commissione europea stima che dei circa cinquecentomila immigrati irregolari di cui è stato ordinato il rimpatrio nel 2019, poco meno del 30% è stato effettivamente rimpatriato. Di questi solo una piccola percentuale è stata rimpatriata volontariamente. Il sostanziale fallimento delle politiche di rimpatrio costringe centinaia di migliaia di immigrati in un limbo legislativo ogni anno: vengono privati della possibilità di accedere alla protezione speciale garantita ai rifugiati e sono contemporaneamente costretti ad attendere rimpatri che spesso nemmeno avvengono. Inoltre, le procedure spesso poco trasparenti previste negli accordi bilaterali di rimpatrio mettono a rischio il fondamentale principio giuridico del non-refoulement. Tale principio prevede che possibili richiedenti asilo non possano essere rimpatriati in Paesi in cui la loro esistenza potrebbe essere a rischio. Alcuni accordi stretti dall’Unione e dagli Stati membri con Paesi che non rispettano i diritti dei richiedenti asilo o che non sono in grado di garantirne la protezione potrebbero dar luogo a violazioni del diritto consuetudinario internazionale. 

 

Connotati africani del fenomeno 

Tra i rapporti bilaterali sta destando preoccupazione quello tra Danimarca e Ruanda, la cui relazione negli ultimi anni si è rafforzata ed è da poco culminata nel “Memorandum d’intesa sulla cooperazione in materia di asilo e migrazione”. Di preoccupante emerge il riferimento alla volontà del governo danese di far trattare le domande di asilo al di fuori dell’Unione europea «al fine di rompere la struttura di incentivi al sistema di asilo attuale», aspramente criticato per incentivare le rotte pericolose e i trafficanti di esseri umani. Per quanto non vincolante, a questa proposta si è opposta Amnesty International, il cui Direttore europeo ha dichiarato che è preoccupante pensare che i Paesi più ricchi possano pagare per evitare i propri obblighi internazionali e di fatto privare «le persone in cerca di asilo del diritto di avere le loro richieste considerate in Danimarca».

In generale i Paesi africani oltre ad essere luoghi di migrazione in uscita, sono protagonisti anche di una forte immigrazione interna. In particolare, secondo ISPI, «gran parte dei migranti subsahariani – diciannove milioni di persone complessivamente – hanno sì attraversato confini, ma spesso solo per spostarsi in uno Stato limitrofo, o comunque fermandosi in Africa».

Un esempio particolarmente significativo è quello legato alla Somalia, in cui dal 1986 è in corso una guerra civile, iniziata come rivolta contro il regime di Siad Barre. Le condizioni politiche ed economiche della Somalia da allora non si sono ancora stabilizzate e anzi, sono peggiorate quando nel 2006 venne fondato il gruppo fondamentalista islamico Al-Shabaab. Fino al 2011 Al-Shabaab ha controllato ampie zone della Somalia e dal 2006 ha compiuto molteplici azioni di terrorismo ai danni di civili somali e kenioti e esponenti delle istituzioni somale. 

In questa situazione instabile, soprattutto dai primi anni ‘90 c’è stato un massiccio fenomeno migratorio dalla Somalia al Kenya, Paese confinante più stabile a livello politico ed economico. È in questo periodo che si sono costituiti i primi tre campi profughi del complesso di Dadaab (situato in Kenya nella contea di Garissa, a circa 100 km dal confine somalo): Dagahaley, Ifo e Hagadera. Durante la carestia che colpì il Corno d’Africa nel 2011 ci fu un’altra ondata migratoria verso il Kenya che portò alla formazione di altri due campi, Ifo II e Kambioos, che sono però stati chiusi in seguito al programma di rimpatri volontari istituito nell’ambito dell’accordo tripartito (firmato dalla Somalia, dal Kenya e dall’UNHCR nel 2013). Questo accordo specifica che «tutti i rimpatri dovrebbero essere su base volontaria e svolgersi in condizioni di sicurezza e dignità», come si legge nel rapporto Posizione dell’Unhcr sui rimpatri in Somalia meridionale e centrale. Tuttavia, come riporta ISPI, gran parte dei rimpatri erano in realtà non volontari ma forzati e incentivati con denaro e promesse di poter avviare un’attività commerciale a Mogadiscio, mentre la Somalia rimaneva e rimane tuttora un Paese ad alto rischio. 

 

Attualmente a Dadaab sono rinchiuse 218.873 persone che vivono senza prospettive per il futuro e con a stento i servizi di base. In un report del 2019 Medici Senza Frontiere (MSF) che attualmente opera nel campo di Dagahaley fornendo cure mediche primarie e secondarie – riporta le condizioni critiche in cui i rifugiati sono costretti a vivere dalla riduzione alle razioni alimentari poiché dei richiedenti asilo non registrati nello stesso anno erano circa quindicimila e «solo circa la metà riceve assistenza alimentare sulla base di una valutazione della vulnerabilità», anche secondo l’UNHCR. 

Queste condizioni sono ulteriormente esasperate dalla situazione di incertezza riguardo alla sopravvivenza stessa dei campi. Infatti già nel maggio del 2016, il Governo keniota aveva annunciato la chiusura del campo di Dadaab, ma la questione si era conclusa nel febbraio del 2017 quando l’Alta Corte del Kenya aveva dichiarato illegale la chiusura. Quest’anno, a fine marzo, il Governo keniota aveva nuovamente dato un ultimatum di quattordici giorni all’UNHCR per elaborare un piano di chiusura per Dadaab e Kukuma, per via di presunte infiltrazioni di Al-Shabaab. A inizio aprile però l’Alta Corte del Kenya «ha emesso un ordine temporaneo della durata di trenta giorni che accoglie la denuncia legale […] per chiedere la revoca della chiusura dei due campi». È del 29 aprile una dichiarazione congiunta del Governo del Kenya e dell’UNHCR che «concordano in merito al fatto che i campi rifugiati non rappresentino più una soluzione durevole per le persone costrette a fuggire e si impegnano a lavorare insieme per trovare alternative in linea con gli obiettivi e i principi di condivisione delle responsabilità definiti dal Global Compact sui Rifugiati». In questa dichiarazione il Governo ha comunicato che la chiusura dovrebbe avvenire entro il 30 giugno 2022. 

In questa cornice di estrema insicurezza, le richieste che MSF fece nel 2016 restano purtroppo ancora valide: creazione di campi più piccoli in Kenya, reinsediamento in Paesi Terzi più sicuri e «opportunità per i rifugiati di diventare autosufficienti e di essere integrati nella vita al di fuori dei campi», anche perché molti di essi sono nati nel campo e non hanno conosciuto null’altro che questo per tutta la vita. 

 

Secondo strumento: l’hotspot

L’approccio hotspot, insieme alla dichiarazione Ue-Turchia, ha portato alla creazione di una situazione senza precedenti: introdotto per la prima volta nel 2015, tale strategia offre un sostegno d’emergenza a quei Paesi – tra cui la Grecia e l’Italia – che “subiscono” particolarmente i flussi migratori tramite l’istituzione di centri per l’accoglienza e l’identificazione. In Grecia ne esistono cinque attivi che si trovano sulle isole di Lesbo, Chios, Samos, Kos e Leros, nel Mar Egeo. La dichiarazione UE-Turchia è un accordo non vincolante e controverso tra Unione europea e Turchia che ha portato a quella che viene definita da molteplici Ong come una vera e propria ”catastrofe umanitaria”. Il patto è stato stipulato nel 2016 al fine di gestire i flussi migratori nel Mediterraneo secondo una politica di scambio: per trattenere i migranti che tentavano di raggiungere l’Ue per chiedere asilo, quest’ultima avrebbe offerto aiuti economici alla Turchia per la gestione dei rifugiati presenti nel Paese.

 

Nonostante l’obiettivo di ridurre il numero degli arrivi sulle coste greche sia stato effettivamente raggiunto, la dichiarazione ha allo stesso tempo complicato l’evasione delle richieste di asilo: negli hotspot è previsto, infatti, che i rifugiati facciano la richiesta nel luogo di sbarco, ma le procedure possono durare anni e, fino all’ottenimento della risposta – con un eventuale ricorso per un diniego – ai richiedenti asilo non è permesso raggiungere la Grecia continentale. Le restrizioni geografiche hanno quindi creato condizioni di vita insostenibili sulle isole di primo arrivo, soprattutto in quelle più vicine al confine turco come Lesbo e Chios. La precarietà delle condizioni nei centri di accoglienza è stata denunciata più volte da organizzazioni non governative e attivisti per i diritti umani. In particolare  l’ormai scomparso Moria – hotspot sull’isola di Lesbo in cui erano ospitate quasi tredicimila persone, quattro volte la capienza massima prevista – è stato distrutto lo scorso settembre da un incendio.  Dopo l’accaduto, i profughi sono stati trasferiti nel campo di Kara Tepe 1 tuttora chiuso: una ricerca pubblicata lo scorso novembre dall’UNHCR ha rivelato che su una popolazione di 7.300 persone che vivono in condizioni al di sotto degli standard minimi di accoglienza, almeno il 62% ha bisogno di assistenza medica e psicologica, mentre il 22% è costituito da donne a rischio, quindi incinte o che hanno appena partorito. La crisi umanitaria non si sta consumando solo a Lesbo: secondo le maggiori Ong, 3.500 persone vivono nel campo di Vathy a Samos – che ne potrebbe ospitare solo 648 – in condizioni di sovraffollamento. 

Vincenzo Maranghino, capo missione in Grecia per l’organizzazione umanitaria Intersos, dichiara che per migliorare davvero le condizioni dei migranti è necessario superare l’approccio hotspot, il quale non garantisce il rispetto dei diritti umani e le procedure di asilo. Ma il nuovo Patto europeo sull’immigrazione e asilo, che prevede il rafforzamento degli accordi con i Paesi terzi e dei controlli alle frontiere, sta continuando ad andare verso questa direzione.

 

Occhi artificiali e digitali

Tentare di fare chiarezza su quel dedalo di questioni irrisolte che si distende lungo il confine greco-turco significa innanzitutto parlare di quanto accade al largo delle coste della regione dell’Egeo laddove il confine marittimo riemerge incontrando le sponde di isole greche già note alle cronache per ospitare campi profughi sovraffollati e privi di controlli adeguati da parte delle autorità sia locali che comunitarie. Parallelamente, la scarsità dei servizi di base garantiti all’interno delle strutture, per forza di cose recepite come “aliene” dal contesto locale, ha aumentato l’insofferenza delle comunità di residenti, creando un caso politico non di rado permeabile alle incursioni della narrazione violenta di estrema destra.

A questo mosaico l’Unione europea ha deciso di aggiungere un ulteriore tassello circa un mese fa, quando la Commissaria per gli affari esteri Ylva Johansson ha annunciato uno stanziamento di oltre duecentocinquanta milioni di euro per la costruzione di cinque nuovi campi profughi sulle rispettive cinque isole greche. Stando a quanto emerso dall’incontro tra Johansson e le autorità greche, la sensazione è quella che la Commissione voglia al più presto rendere operativi questi nuovi punti di ricezione, per allentare le pressioni delle Ong e dell’opinione pubblica. Infatti, un’ulteriore delegittimazione del Governo greco contribuirebbe alla fragilità politica di un confine che rischia di oscurare una volta di più l’immagine dell’Ue, con la Turchia di Erdogan che ne tiene saldamente le chiavi. Come messo nero su bianco dal Governo della presidente Katerina Sakellaropoulou, i nuovi campi sorgono con l’obiettivo di «separare i rifugiati dai migranti irregolari» e «ridurre l’impatto della crisi sulle comunità locali». Un’operazione di alleggerimento che stride coi numeri: escluso quello di Chio, i campi – stima un report reso noto dalla rete di attivisti Europe Must Act – potranno ospitare complessivamente circa 13.890 persone. A febbraio 2020 sulle Isole egee i richiedenti asilo erano quarantamila.

Parte dei trentatré milioni provenienti dal Next generation Eu serviranno poi a implementare il progetto denominato “Centaur”, un sofisticato sistema di controllo dei movimenti e dei comportamenti dei migranti ospiti dei centri. Il Ministero greco per la Migrazione e l’asilo, Notis Mitarachi, ha rilasciato a una manciata di interlocutori il documento ufficiale del progetto, da cui si apprende che «Centaur integrerà un sistema di sicurezza elettronica e fisica, lungo il perimetro dei campi e al loro interno, utilizzando telecamere e algoritmi di analisi del movimento. Il tutto sotto la regia di una centrale operativa impiantata negli uffici del ministero». La notizia ha fatto sobbalzare chi da anni monitora le condizioni dei migranti in Grecia. Il coordinatore di Europe Must Act, Matthias Mertens, ha parlato ad Algorithm Watch di condizioni di simil-detenzione: «Questi campi sono progettati riflettendo il più possibile l’immagine di una prigione, posizionando i migranti in aree remote perimetrate da barriere rafforzate». Petra Molnar, avvocata che lavora con le Ong Migration and Technology Monitor e Refugee Law Lab, aggiunge: «L’iniziativa mostra che la reale priorità del Ministero è di normalizzare questo tipo di sorveglianza. Parliamo di videocamere, droni, sistemi automatizzati di registrazione e trasmissione della voce dei migranti. È la prima volta che misure di questo genere vengono descritte come requisiti indispensabili per questi progetti». Il documento di presentazione di Centaur disciplina inoltre l’accesso ai campi che saranno regolati da un sistema elettronico che consentirà solo ai richiedenti asilo e al personale “certificato” di organizzazioni non governative, a loro volta “certificate”, senza dare una specificazione sui criteri della certificazione necessaria al lasciapassare. 

Se tutto si compirà nei sei mesi record previsti sia dal governo ellenico che dalla UE, si creerà un precedente da non sottovalutare, in cui i campi profughi in Europa diventeranno area sperimentale per le applicazioni securitarie dell’intelligenza artificiale, in contraddizione alla disciplina giuridica alla base proposta di regolamento sull’intelligenza artificiale della Commissione europea, in cui i rifugiati rientrerebbero tra i soggetti a rischio abuso.

 

Terzo strumento: la deportazione

Nell’apprendere la notizia del colpo di stato militare avvenuto in Myanmar l’1 febbraio di quest’anno, le preoccupazioni della comunità internazionale si sono presto focalizzate sulla questione dei rohingya che secondo l’UNHCR si tratta infatti della “minoranza più perseguitata al mondo”. Privati della cittadinanza dal 1982 e perciò apolidi, i rohingya sono una minoranza musulmana di lingua vicina al bangladese che vive principalmente nel Rakhine, Stato nel Myanmar occidentale. Il gruppo etnico è soggetto da decenni a persecuzioni orchestrate da gruppi di estremisti buddisti e nazionalisti birmani e dall’esercito. Il silenzio su questo genocidio ha causato la condanna internazionale ad Aung San Suu Kyi, Consigliera di Stato del Myanmar fino al 2021 e premio Nobel per la Pace 1991. Nonostante infatti lo Stato sia tornato formalmente una democrazia con le elezioni del 2012, l’esercito ha sempre mantenuto un grande potere: il 25% del parlamento è composto da membri scelti dal capo delle forze armate e secondo la Costituzione birmana – redatta nel 2008 dagli stessi militari – per una riforma costituzionale è necessario oltre il 75% dei consensi in parlamento, perciò di fatto l’esercito può imporre il veto. 

Dopo il colpo di stato che ha portato al potere i militari e l’arresto di Aung San Suu Kyi e dei vertici del suo partito, la situazione dei rohingya non è certo migliorata. A dirigere la pulizia etnica è infatti il Tatmadaw, le forze armate birmane, sotto il comando del generale Min Aung Hlaing, ora presidente del Consiglio di Amministrazione dello Stato, cioè capo dell’esecutivo. L’esercito ha isolato lo Stato di Rakhine segregando i rohingya ancora non in diaspora, circa seimila persone. 

 

La maggior parte dei membri dell’etnia infatti sta emigrando verso il Bangladesh dove dal 2017 sono arrivati oltre un milione di rifugiati nei campi profughi di Cox Bazar, uno dei campi profughi più grande del mondo. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, solo nei due campi più affollati di Cox Bazar, Kutupalong e Balukhali, vivono almeno 560 mila profughi. La realtà dei campi in Bangladesh è sul filo del rasoio: i profughi vivono in tende e costruzioni in bambù. Una crisi umanitaria difficile da gestire per uno degli Stati con il Pil pro capite più bassi al mondo come il Bangladesh. Sul campo sono presenti diverse organizzazioni umanitarie internazionali anche se si percepiscono le carenze significative come l’istruzione e la mancanza di prospettive per il futuro sebbene, come sottolineato da UNICEF, nel campo nascano circa cinquanta bambini al giorno. Nonostante le condizioni, i rifugiati non hanno intenzione di rimpatriare fino a quando non saranno garantiti loro cittadinanza e diritti basilari per una sopravvivenza pacifica in Myanmar. 

 

La zolla di terra di Bashar Char 

Per impedire l’arrivo di altri migranti che le autorità bangladesi non sarebbero più in grado di contenere, il campo è stato circondato con una recinzione sorvegliata che si è rivelata una trappola durante l’incendio scoppiato a marzo scorso. Dalle denunce del Human Rights Watch, la recinzione ha rallentato la fuga dall’incendio che ha provocato quindici morti e circa cinquanta mila sfollati.  Le condizioni estreme e disovraffollamento in cui versa il campo di Cox Bazar hanno portato il Governo bangladese a decidere di trasferire almeno centomila profughi sull’isola di Bashan Char. L’operazione, iniziata il 3 dicembre 2020, ha già trasferito sull’isola oltre diciottomila persone. Si tratta di un’isola emersa venti anni fa nel Golfo del Bengala che il Governo di Sheikh Hasina ha dato l’ordine di organizzare per il trasferimento di ventiquattro mila famiglie rohingya. Per la popolazione bengalese è Bashan Char, l’isola fluttuante a causa della sua instabilità morfologica. 

Il Governo bangladese propone il trasferimento sull’isola come una soluzione temporanea e nel 2017 ha stanziato duecentocinquanta milioni di euro per il progetto “Ashrayan-3” al fine di costruire abitazioni e strutture di prima necessità per ospitare ventiquattro mila famiglie rohingya. Da tempo, la comunità rohingya e le organizzazioni internazionali criticano il piano del governo della premier Sheikh Hasina: l’Onu già nel febbraio 2020 si era dichiarata contraria all’operazione. A preoccupare le organizzazioni umanitarie sono in primis l’instabilità morfologica dell’isola, come sottolineano studi dell’Agenzia Spaziale Europea, e i possibili fenomeni atmosferici estremi, secondo il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite: il Bangladesh si prefigura come lo Stato più a rischio di cicloni tropicali. Inoltre gli attivisti per i diritti dei rohingya denunciano che i trasferimenti sono stati coercitivi: i profughi sarebbero stati costretti o ingannati per trasferirsi sull’isola di Bashan Char e, secondo l’Human Rights Watch, le autorità bangladesi avrebbero fornito informazioni false e parziali ai migranti. Il reportage Let us speak for our rights di Amnesty International riporta la presenza di una sola struttura medica ossia una clinica mobile gestita dalla Marina Militare aperta solo quattro ore al giorno. Le donne rohingya segnalano inoltre numerosi stupri e violenze sessuali da parte delle forze armate bangladesi e, sullo stesso report di Amnesty International, un migrante rohingya dichiara che nonostante avesse mandato sessanta dollari alla figlia che vive sull’isola di Bashan Char, solo le sono arrivati trentacinque dollari mentre il resto è stato sottratto dalla Marina stessa. La condizione dei rohingya nell’isola di Bashan Char viola l’art. 9 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici che sancisce il diritto alla libertà e impedisce la detenzione arbitraria se non nei casi previsti dalla legge, oltre che tutelare all’interno di uno Stato nazionale la libertà di movimento e di scelta della propria abitazione.

Articolo di Eleonora Pizzichelli, Matteo Cortellari, Francesca Maria Lorenzini, Matteo Suanno e Valentina Moro