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Lontani da una tassa veramente globale
Le nuove frontiere della fiscalità internazionale tra la Bideneconomy e l’Inclusive Framework
In questi mesi si è parlato molto nella stampa italiana e internazionale di Global Tax, un’espressione entrata nel dibattito pubblico durante la negoziazione interna all’assemblea del G7, che si è conclusa il 5 luglio a Londra. Ad annunciare il supporto che l’Italia aveva dimostrato alla proposta è stato lo stesso Draghi, e questo ha creato dei fraintendimenti in alcune forze politiche che hanno etichettato la proposta come iniziativa del premier italiano. Teoria molto distante dalla realtà, che vede nascere la proposta da un’apertura della Bideneconomy americana, che si allontana dalle chiusure e dalle minacce di dazi che avevano caratterizzato l’amministrazione precedente. Infatti la proposta della tassa globale, che si rivolge alle multinazionali con un margine di profitto dichiarato del 10%, è rivolta principalmente, anche se non esclusivamente, alle grandi aziende del digitale, molte delle quali hanno sede negli USA.
La fine dell’iperglobalizzazione
L’obiettivo dell’iniziativa di tassare MNEs, le aziende multinazionali che operano nel digitale, emerge chiaramente dal primo punto della proposta di legge, che ipotizza una regolamentazione che bilanci la ripartizione squilibrata di profitti a livello mondiale. Questa prima parte della proposta si concretizzerebbe in una ridistribuzione di una percentuale dei profitti globali delle aziende agli stati dove queste svolgono affari, piuttosto che allo stato a cui pagano normalmente un’accisa del 15%, secondo l’applicazione della seconda parte della proposta.
La fissazione di un ETR, un tasso efficiente di tassazione, che comunque non può essere inferiore al 15%, avrà delle conseguenze non solo sul settore digitale, ma, come evidenziano i dati OECD del database ADIMA- 100, anche sulla distanza tra i livelli di tassazioni attuali e quelli efficienti. I settori in cui tale distanza è maggiore sono quello appunto quello digitale e quello farmaceutico.
La proposta di una tassa globale, iniziativa dalla natura completamente inedita, sostituisce così le negoziazioni promesse da anni ma mai avvenute attorno alla creazione di una web tax globale. La principale differenza tra una web tax e una global tax è l’oggetto del calcolo dell’imponibile: se la prima tassa le singole operazioni, la seconda invece riesce a tassare a valle, intaccando i ricavi annuali complessivi. In questo modo la global tax riesce anche a sfuggire dal vincolo settoriale, ponendosi in modo trasversale e non come misura per il solo settore digitale.
Attorno alla web tax erano molti i problemi emersi in sede di negoziazione, poiché questa misura prima di essere pensata a livello globale è stata pensata a livello nazionale. La legislazione frammentata aveva creato un panorama fiscale molto tortuoso in cui le aziende americane con sedi all’estero dovevamo barcamenarsi. Il risultato era che gli USA stabilivano dei dazi sui prodotti Ue, causando una risposta europea in termini di prezzi su altri tipi di servizi, che portava a delle vere e proprie micro guerre fiscali provocate dalla natura settoriale della misura.
Quali proposte di regole sovranazionali
L’iniziativa americana è figlia di un dato relativo al trend recentemente in salita della percentuale dei profitti delle multinazionali che vengono detenuti all’estero (+ 30%). Questa tendenza deriva a sua volta da una regolamentazione anacronistica della tassazione corporate negli USA, che risale ad un momento storico in cui la priorità assoluta veniva data all’espansione del modello capitalistico americano. Pertanto era incoraggiato il movimento di capitale all’estero come forma di allargamento e dunque era prevista la possibilità di detenere gli utili maturati all’estero in sospensione d’imposta in uno Stato che accettasse di farlo. In questo modo la filiale estera non doveva pagare le tasse negli USA. L’amministrazione Trump era intervenuta per arginare la fuga di capitale introducendo una norma secondo la quale le imprese con filiali all’estero che superassero del 10% la soglia del tasso minimo di tassazione avrebbero dovuto pagare una percentuale delle tasse sul profitto delle filiali estere negli USA . Questa misura è però risultata a livello federale americano poco redditizia in termini di profitto estratto, mentre a livello internazionale è importante tenere conto di dove le multinazionali del digitale estraggono valore e profitto. Infatti le multinazionali non rispettano i confini degli stati, in quanto i propri utenti sono in tutto il mondo e laddove viene estratto valore in termini di profitto questo, dovrebbe essere restituito almeno in parte per creare valore pubblico. Pertanto, nonostante una cospicua percentuale delle multinazionali – 40 tra le prime 100 per margini di profitto – abbia sede principale negli USA, il profitto che generano viene estratto in modo transnazionale e seguendo questo schema anche parte del valore aggiunto dovrebbe essere redistribuito in modo transnazionale tra gli Stati in cui sia stato generato.
D’altra parte l’ipotesi di sviluppare una tassa globale capace di rispondere alle sfide della globalizzazione e della digitalizzazione del mercato è presente nelle arene di policy internazionali fin dal 2013, quando in seno all’OECD era stato approvato il Piano di Azione BEPS. L’impegno internazionale è stato poi rinnovato nella primavera 2019 con la discussione del progetto BEPS 2.0, che viene sviluppato per frenare le iniziative autonome di tassazione nazionale in favore di uno sforzo collettivo per la creazione di una soluzione globale.
Il piano nella sua prima versione si articola in 15 ambiti di azione orientati alla creazione di regole internazionali per combattere l’evasione fiscale e la mancata creazione di valore pubblico quando i profitti, non venendo dichiarati, non possono essere tassati.
La proposta di una regolamentazione a due pilastri è stata pubblicata e approvata per la prima volta in punti dall’Inclusive Framework riunito dall’OECD nell’ottobre 2020. La grande novità nell’iter di creazione e di approvazione della proposta è la presenza strutturale nelle arene di policy di attori in rappresentanza di economie, dal punto di vista della crescita capitalistica, ancora in via di sviluppo. Si è usciti così per la prima volta dallo schema instauratosi con la seconda guerra mondiale, che prevedeva una regolazione economica internazionale in mano ai paesi leader del movimento di globalizzazione economica e finanziaria.
L’Inclusive Framework, da alcuni considerato il più grande successo dell’OECD negli ultimi 10 anni in termini di cooperazione economica internazionale, ha presentato al G7 la sua proposta di regolamentazione tributaria internazionale.
Questa prevedeva l’inserimento di due tipi di set di regole: uno per i Servizi Automatici Digitali (ADS), quindi per multinazionali come l’Inglese WWP o la newyorkese Omnicon Group, che si occupano di pubblicità digitale.Il secondo invece, per le aziende che lavorano a contatto diretto con il cliente (CFBs). L’obiettivo era aprire la strada per una regolazione ulteriore del settore digitale, che non si limitasse esclusivamente a tassare globalmente le aziende più grandi in assoluto, ma anche quelle che estraggono valore secondo un certo tipo di meccanismi, grazie alle leve dell’economia digitale.
Il secondo pilastro stabilisce un livello di tassazione minima che punta a far restituire margini di profitto a quelle aziende che hanno sede in stati con un sistema di tassazione al di sotto degli standard, che viene di conseguenza considerato insufficiente in termini di redistribuzione delle risorse e creazione di valore pubblico. Sono moltissime ad oggi infatti le aziende che istituiscono la propria sede in paradisi fiscali, riuscendo così ad eludere ogni tipo di prelievo. La scelta di inserire nella proposta una tassazione minima è un primo timido tentativo di intaccare il privilegio di questi paesi e delle imprese che lì si insediano, attratte dai vantaggi di una tassazione irrisoria.
Questi set di norme interne al programma a punti approvato formalmente dal G7 di Londra rientrano nel tipo di considerazioni specifiche che saranno oggetto delle negoziazioni che avverranno nei prossimi mesi. La fase di confronto tra stakeholders nelle assemblee internazionali può essere molto lunga e portare ad emendamenti che potrebbero sconvolgere l’assetto iniziale della proposta e, proprio per questo, bisognerebbe diffidare ancora di chiunque parli in termini assoluti del tipo di global tax che verrà approvata effettivamente dai paesi ONU.
Cosa significa tassare in base ai margini di profitto
A seguito della riforma della proposta dell’Inclusive Framework emersa a Londra, perfettamente in linea con i piani di Biden per la strutturazione di un sistema tributario domestico in accordo con un nuovo framework internazionale, si è passati da una base fiscale di circa 2300 aziende a una di 100. Cambiando i criteri e spostando il focus dal settore tech e dalla relazione con il cliente ai margini di profitto, ci si è lasciati alle spalle più di 2000 potenziali contribuenti. Infatti il piano con il set di regole GloBE, che si concentrava sui processi automatici e le aziende che operano per contatto diretto con i clienti online, riusciva a far rientrare nell’ombrello della base fiscale anche multinazionali non nella top 100, ma comunque con un profitto, derivato da uno sfruttamento dei punti ciechi del sistema di tassazione del settore digitale, tale da poterle considerare attualmente avvantaggiate rispetto alle loro corrispettive in altri settori.
D’altra parte, parallelamente alla spinta americana, la direzione presa dalla proposta è anche il risultato del posizionamento europeo rispetto alla regolamentazione fiscale delle aziende del digitale. L’europa incoraggia una maggiore centralità del primo pilastro che si fonda sulla ridistribuzione e le istituzioni comunitarie hanno il delicato compito di gestire il dissenso di quei paesi come Olanda e Irlanda che, per le caratteristiche della loro legislazione delle royalties, avranno molto da perdere da un’approvazione della norma priva di un accordo di transizione di accompagnamento.
Per gli Stati Uniti, che hanno perso il 15% di ricavi pubblici da tasse negli ultimi 30 anni, alzare la tassazione a livello domestico era un imperativo, e il fatto di armonizzare di conseguenza le politiche fiscali mondiali dà agli USA un vantaggio relativo, poiché non si trovano a dover far pagare tasse più alte della media alle aziende estere che volessero trasferire il loro capitale negli States.
In sostanza, se la tassa globale verrà approvata, tra qualche anno, e manterrà gli obiettivi di policy attualmente al centro della proposta del G7, si arriverà a individuare le 100 aziende con un margine di profitto dichiarato superiore al 10% rispetto alla media, ottenendo un ricavo fiscale di circa 10 miliardi l’anno. Non si tratta di una somma esorbitante se si pensa al numero di stati che partecipano, e che 40 su 100 multinazionali sono registrate negli USA. Ma d’altra parte per la prima volta si discute a livello internazionali di riforme fiscali globali con un’attenzione inedita nel disegnare delle politiche che non permettano alle grandi aziende di esimersi dalla produzione di valore pubblico. L’approccio proposto da Biden, il calcolo dei margini di profitto complessivi, permette per esempio di superare la difficoltà nella rendicontazione separata di profitti residuali e profitti di routine, molto difficile da operare su fatturati dalle dimensioni mastodontiche, strutturati in modo volutamente contorto come quelli delle multinazionali che costituiscono l’obiettivo della proposta.
Il nodo che rimane da sciogliere e che rappresenta il problema effettivo si può riassumere nell’incapacità di piani come quello dei BEPS, inaugurato nel 2013, di far ufficializzare alle grandi aziende i margini di profitto ad oggi non dichiarati, che le farebbero rientrare nella soglia oggetto della misura, aumentando la base fiscale.
Se non si riescono a chiudere i buchi della regolamentazione fiscale il valore estratto dai privati non riesce a tornare alle pubbliche amministrazioni. Si tratta di circolo vizioso che rappresenta una corsa al ribasso collettiva, un gioco win-lose che vede un numero di aziende tassabili limitato, quando non in calo. Questo ha portato allo sviluppo di un sistema di norme fiscali volte non ad attrarre nuovi capitali, ma piuttosto a non farsi sfuggire quelli che già ci sono. Finalmente, l’’evidenza del disequilibrio causato dall’esistenza paradisi fiscali, ha reso questi stessi i protagonisti della prima ondata di regolamentazione globale. Rimane però da chiedersi se l’approccio alternativo, quello che tassa le operazioni, la cosiddetta web tax , non avesse più potenziale nello scardinare meccanismi di evasione che rappresentano spinte dominanti.
DI fronte alla pragmaticità di un approccio più settoriale viene da interrogarsi se questo movimento di regolazione del mercato sul mercato, emerso dalla proposta più recente, non faccia parte di una visione utopica: per cui è possibile tassare le multinazionali in base ai margini di profitto in un mondo globalizzato nonostante l’assenza di un vero e proprio coordinamento di politiche internazionali.
I primi attriti e di conseguenza i primi negoziati dopo l’approvazione di inizio giugno sembra che si svolgeranno proprio tra i paesi nord europei che stavano lanciando le web tax nazionali e l’America di Biden, portatrice della proposta di tassa globale.
La sfide più grandi che il processo di negoziazione dovrà affrontare saranno dunque relative, da un lato allo sconvolgimento degli equilibri per come sono stati finora, e dall’altro ad un allargamento delle possibilità di attrarre capitali per quei paesi che sono stati storicamente esclusi dalle dinamiche di finanziarizzazione. Il risultato che le negoziazioni devono raggiungere è parallelo alla crescita e alla smaterializzazione della base fiscale causata dall’espansione delle frontiere del capitale immateriale. Per farlo non si può che concludere che una linea propriamente politica condivisa non guasterebbe alla direzione dei negoziati attorno alla proposta per quella che, ad oggi, è ancora lungi dall’essere una vera e propria tassa globale.
Articolo di Marta Bernardi