The Queen’s Gambit, da entrambi i lati della scacchiera

Due punti di vista sulla serie Netflix che ha fatto riaccendere la passione per gli scacchi

A più di tre mesi dalla sua uscita, The Queen’s Gambit continua ad essere tra le serie più viste di Netflix e a far par parlare di sé. Il successo dell’opera prodotta dalla piattaforma californiana non è un colpo di fortuna, ma getta solide basi su una fedele ricostruzione scenografica e scacchistica, nonché su una regia attenta a valorizzare il “dinamismo” materiale ed immateriale di questo complessissimo gioco.

A caratterizzare tali scelte di regia c’è stata poi l’interpretazione di Anya Taylor Joy, capace di rendere  Beth Harmon giusta icona di un prodotto di qualità, ben pensato e ben sviluppato.

 

Quando l’unica storia di empowerment che piace è quella che non è mai accaduta

di Simone Aragona

Quello che sembra essere il tratto più denotativo della serie è quello che non porta sullo schermo. Non è facile rendere credibile una storia che non sarebbe mai potuta accadere, in un’epoca storica che l’umanità ha già vissuto. 

Se volessimo scrivere la storia di un presidente afrodiscendente negli USA del 1966, non potremmo limitarci a ignorare il razzismo che ne ha impedito l’elezione nel mondo reale. Dovremmo affrontarlo, per stabilire un’idea credibile di cosa questa storia abbia di diverso rispetto a quella reale.

L’errore meno grave degli autori di The Queen’s Gambit è stato ignorare questo semplice dato di fatto.

L’ambientazione di The Queen’s Gambit è accurata. Dal make up all’arredamento, fino ai vestiti, vi sembrerà tutto molto simile a come immaginate la fine degli anni ‘60. Solo che in questa serie, il maschilismo del Kentucky pre sessantottino, è uno scherzo se confrontato a quello del Kentucky del 2020, dove una donna è obbligata per legge, ad ascoltare il battito del proprio feto prima di abortire.

The Queen’s Gambit non affronta il problema, lo ignora. Riduce il sessismo novecentesco a un misto di burbera benevolenza e rispettoso fastidio e i maschietti, beneducatissimi, passano dal più sincero stupore dell’essere stati battuti, al diventare i mentori grazie ai quali Beth riuscirà a superare la crisi finale e battere anche il campione russo.

 Non sembra che gli autori di questo prodotto si siano mai confrontati con un semplice dato di fatto: nessuna scacchista reale ha mai raggiunto il rispetto unanime di cui gode, ma solo nella finzione, la protagonista della serie, Beth Harmon. 

Altro dato di fatto, è che Judith Polgar, la scacchista ungherese che battè Garri Kasparov nel 2002, racconta un ambiente molto diverso da quello narrato dalla serie. Un ambiente che possiamo facilmente immaginare a partire dalle parole, non certo isolate, dello stesso Kasparov, secondo cui gli scacchi non sarebbero un gioco adatto alla natura femminile. Da qui l’idea che proprio l’ambiente sessista degli scacchi, sia alla base dei fallimenti delle vere Beth Harmon. Non certo la mancanza di genio o di pillole adatte, come suggerisce questa intrigante narrazione. The Queen’s Gambit non è una serie inutile, è una serie pericolosa. Perché non elimina il sessismo, lo depotenzia. Lo rende un fattore non insormontabile. Mostra un sessismo credibile ma diverso da quello reale, e immerge questo falso storico nel vero 1966.

La regina degli scacchi è un prodotto che inquina la memoria che abbiamo di quel periodo storico e di quella società, proprio come una fake news convincente è in grado di inquinare la nostra conoscenza del mondo che ci circonda e della realtà in cui viviamo: mischiando fatti e fenomeni reali sapientemente distorti attraverso una narrazione credibile.

Come al solito il mago ci distrae con una mano, mentre con l’altra stritola la colomba sotto la manica. E così non stupisce che, finita la serie, si possa essere convinti di aver assistito a qualcosa di realmente accaduto. Come non stupisce che nel 2020 ci sia ancora chi crede che mostrare un assorbente al grande pubblico sia il massimo a cui possa aspirare una femminista.

A stupire semmai, sono solo i piccoli indizi di questa brutta storia. Come il fatto di aver dedicato la serie a  Iepe Rubingh che non è la donna reale che ha ispirato il personaggio di Beth Harmon, in realtà non è nemmeno una donna. 

Rubingh è stato un artista e un imprenditore olandese, ricordato soprattutto per aver codificato le regole del chessboxing, una specie di biathlon di scacchi e pugilato. Uno sport che sembra studiato appositamente per provare a fare di nascosto ciò che gli scacchisti non possono più fare apertamente nel 2020: impedire alle donne di vincere.

 

 

Genio e sregolatezza

di Lorenzo Artegiani

La struttura narrativa si sviluppa sulla dicotomia forse più azzeccata per una serie sugli scacchi. Il talento della scacchista è portentoso: la vediamo prevalere con facilità contro maestri internazionali, conquistandosi grazie al suo dono il plauso e addirittura l’invidia degli altri personaggi e dello spettatore.

Ancora prima del suo talento, ci vengono mostrati i tratti caratteriali di Beth, la vediamo crollata in una vasca da bagno dopo una probabile sbornia, in madornale ritardo per una sfida estremamente importante.

Fin dal principio, dunque, la scacchista ci appare come un personaggio che elude tutte le convenzioni e le regole del mondo in cui compete, sia risultando superiore a chiunque nel gioco senza un apparente sforzo, ma soprattutto per via delle sue dipendenze e della sua vita priva di equilibrio. 

Da Sherlock Holmes, forse il primo grande “sregolato” dell’immaginario occidentale, fino a personaggi recentissimi ma già parte della cultura pop come Rick Sanchez dalla serie Rick e Morty, la facoltà di una persona di superare come se niente fosse ogni ostacolo, sia fisico sia morale, ci affascina perché fa crollare in modo scenografico due capisaldi della nostra vita quotidiana: l’impegno e il rispetto. Nella letteratura di evasione, Il “Genio” è proprio colui che si ribella sia dall’obbligo di impegnarsi per eccellere, sia dal dovuto rispetto verso chi gli è superiore: la sua capacità di fare benissimo e in modo innato qualcosa lo pone ai nostri occhi in una specie di “zona grigia” in cui gli è concesso violare ogni regola.

Nel momento in cui si è i migliori, infatti, non sembrano più esserci i presupposti per cui si debba sottostare a una qualche autorità o legge.

Questo è il motivo per cui lo spettatore proverà sempre un irresistibile attrazione verso figure come quella di Beth Harmon: esibendo così sfrontatamente la propria superiorità, fanno evadere dalla vita quotidiana, fatta di impegni e costrizioni.

Questa dinamica si incrina di colpo quando la protagonista inizia a perdere, essendosi imbattuta in un giocatore che non è capace di battere solo con il suo talento.

la perdita della sua aura di imbattibilità porta Beth a dover mettere in discussione tutto quello che credeva di essere, e proprio in questo momento il suo alcolismo, la sua dipendenza da farmaci e il suo carattere altezzoso, prima tratti eccitanti proprio perché al di fuori della moralità, si rivelano difetti e ostacoli.

 Migliorandosi come scacchista, Beth dovrà limare i suoi spigoli con pazienza, come facciamo tutti noi nel nostro percorso di crescita: questo lavoro farà finalmente coincidere successo e consapevolezza, trionfo e umiltà.

 

 

Articolo di Simone Aragona e Lorenzo Artegiani