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The Ride ep.2 – Strage di Cutro
The Ride è l’analisi della trovata settimanale dei partiti, a caccia di consenso o di potere.
Fa un certo effetto vedere Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Matteo Piantedosi e tutta la destra di governo dedicare preghiere a persone morte in mare. Come se fosse qualcosa che davvero fa parte del loro DNA, come se fosse una tragedia davanti alla quale non si può fare altro che pregare. Come se fosse una strage che non li riguarda da vicino. Perché, al di là della sincerità della preghiera, la responsabilità politica non può essere ignorata, e le parole che pronunciano pubblicamente non sono solo gaffe.
I cadaveri ritrovati nel Mar Ionio sono quelli di persone che avevano viaggiato per quattro giorni in mare, su una rotta meno battuta, ovvero quella del Mediterraneo orientale. Partita da Smirne, in Turchia, la barca dove viaggiavano 150 persone provenienti in gran parte da Pakistan e Afghanistan è affondata a poche centinaia di metri dalle coste italiane. È difficile sapere cosa sia successo davvero, soprattutto perché il governo non ha nessuna intenzione di dare spiegazioni. Ma gli elementi che si hanno forse bastano a tratteggiare i connotati della vicenda. Intorno alle 22:30 di sabato 25 febbraio, un aereo dell’agenzia europea della sicurezza di frontiera, Frontex, avvista la nave. Alle 23:03 l’agenzia segnala via mail (tanto per rendere giustizia al senso di urgenza percepito da chi controlla le frontiere) la presenza di una nave carica di molti migranti, senza specificare quanti. Viene segnalata anche una “buona navigabilità” e l’assenza di giubbotti salvagente. Dunque, la palla passa all’Italia. A intervenire non è la Guardia Costiera ma la Guardia di Finanza, per un’operazione “di intercetto” e non una di salvataggio. Ma il peschereccio è fuori dalla giurisdizione della Finanza, che quindi decide di aspettare e di fatto non fa nulla. Dal porto di Crotone partono due motovedette della Guardia Costiera solo alle 5:30 quando arriva una telefonata al numero di emergenza in cui si capisce solo “help”. A quel punto, molte persone sono già in mare. Si tratta di una Guardia Costiera già sottofinanziata per affrontare la quantità di arrivi via mare e non “rodata” sulla rotta del Mediterraneo orientale quanto lo è su quella del Mediterraneo centrale. E viene scoraggiata dall’intervenire con un’operazione di salvataggio prima del naufragio.
Non sono noti i dettagli della strage, quindi per ora è impossibile sapere quanto il governo abbia colpe in quello che si è visto (Repubblica di mercoledì 1 marzo teorizzava che la scelta di far intervenire la Finanza piuttosto che la Guardia Costiera arrivasse, genericamente, “da Roma”). Ma le responsabilità politiche sono chiarissime. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è una creatura salviniana, avendo fatto da Capo di gabinetto al Capitano ai tempi del governo gialloverde e avendo contribuito in maniera decisiva alla stesura dei decreti sicurezza. In questi giorni si è reso protagonista di uscite pubbliche al limite del surreale. In un primo momento parla del fatto che se fosse disperato non partirebbe perché «educato anche alla responsabilità di non chiedermi sempre io cosa devo aspettarmi dal luogo e dal Paese in cui vivo, ma anche quello che posso dare io al Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso». Come se chi arriva dall’Afghanistan avesse la colpa di non aver imbracciato il fucile contro i talebani, o come se chi è fuggito dal Pakistan devastato dalle inondazioni dovesse superare la tragedia di perdere tutto diventando un angelo del fango. In un secondo momento, durante uno scontro in Commissione Affari costituzionali al Senato, alle accuse di essere disumano per le parole di cui sopra ha risposto sostenendo di essere «talmente emotivo da emozionarmi prima che le tragedie avvengano».
Ma al cuore di queste dichiarazioni folli c’è un mantra che arriva da lontano: «Bisogna fermare le partenze». È qualcosa in cui crede prima di tutto l’Europa, non la destra italiana. Ci crede senz’altro da circa tre anni, ovvero quando ha iniziato a versare tranche da miliardi di euro (circa 10 dal 2020) per gestire i flussi migratori e i campi per rifugiati alla Turchia. Ovvero da dove è partita la nave che è affondata al largo di Crotone. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: dalla Turchia le persone partono ugualmente, si consolida una nuova rotta che bypassa la Grecia e altri porti sicuri per puntare direttamente l’Italia, e infine le persone muoiono in acqua a meno di un chilometro dalla Calabria.
Oltre a essere impossibile, dire di voler “fermare le partenze” è semplicemente mentire. La missione che l’Italia rinnova ogni anno con la Libia, attraverso cui viene finanziata con decine di milioni la Guardia costiera libica, ha questo obiettivo dichiarato: “fermare le partenze” gestite dai trafficanti, che stando alle dichiarazioni della politica sarebbero gli unici veri mostri della gestione dei flussi. Ma il Libyagate, caso sollevato da inchieste giornalistiche sui respingimenti al largo della Libia sulla rotta del Mediterraneo centrale, è solo l’ultima dimostrazione del fatto che la Libia a cui noi versiamo denaro è complice degli scafisti. Al punto che, ormai due anni fa, veniva scarcerato un notissimo trafficante di esseri umani, Abdul Raman al Milad detto “Bija”, ex capo proprio della Guardia costiera libica.
Di fronte a una situazione tragica, perciò, la reazione della politica è solo la costruzione di una realtà alternativa, di fronte alla quale incolpare tutti tranne se stessa. Non si sottrae a questo rito neanche il Terzo Polo, con il leader Carlo Calenda che affida come sempre a Twitter una raffinata analisi: «Le persone che sono in mare vanno salvate a tutti i costi, senza penalizzare chi aiuta a farlo. Le rotte di immigrazione illegale vanno però chiuse, altrimenti continueremo ad assistere a questa strage quotidiana». Peccato che le “rotte di immigrazione illegale”, gestite dai trafficanti, al momento siano le uniche esistenti per chi parte via mare. Per chi vuole arrivare legalmente le norme vigenti sono regolate dalla legge Bossi-Fini, che prevede l’ingresso in Italia solo per chi ha già la certezza di potervi lavorare. I fallimentari decreti flussi si muovono su questa falsariga, con numeri fuori dalla realtà. Per il 2022 erano previsti 82.705 ingressi legati a permessi di lavoro. Nello stesso periodo sono arrivate via mare – e quindi, “illegalmente” – 105.129 persone. Senza contare anche gli arrivi via terra. La presidente del Consiglio ora chiede all’UE di creare queste “rotte legali”, cercando di scaricare la responsabilità su Bruxelles dopo vent’anni di legislazione italiana che vanno nel senso opposto.
Lo stesso Calenda, inoltre, ha fatto parte di un governo che ha penalizzato pesantemente chi aiuta a salvare vite. Il nuovo decreto ONG varato dal governo Meloni, che rende sostanzialmente impossibile operare in mare senza incorrere in contravvenzioni, è solo l’ultimo atto volto a criminalizzare gli unici attori interessati a evitare tragedie come quella di Cutro. Il primo attacco frontale arrivò nel 2017 con il per mano dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. L’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni impose alle organizzazioni non governative un “codice di condotta”, volto tra le altre cose a impedirgli l’ingresso nelle acque territoriali libiche, lasciando quindi alla sola Guardia costiera libica il compito di gestire i flussi, bloccare le partenze e “salvare vite” riportando i migranti nei lager gestiti da Tripoli. Farsi promotore e votare queste norme non si sposa bene con il piangere le morti in mare. Decidere di farlo nonostante tutto è un’operazione di comunicazione politica audace, neanche troppo ben riuscita.
Creare un contesto dove salvare migranti è un percorso a ostacoli è un’operazione fedele a una linea ben precisa, che punta a screditare l’operato delle ONG, la cui presenza nel Mediterraneo “favorirebbe le partenze”. Un’ipotesi ritenuta non veritiera persino da Frontex, agenzia nata per tenere al sicuro i confini europei dai migranti. Oltre che essere superata dai fatti, dal momento che sullo Ionio, mare dove sono appena morte 67 persone, non operano ONG.
La politica non guarda in faccia la realtà, perché sarebbe come guardarsi allo specchio. Gli sbarchi a febbraio 2023 sono stati quasi diecimila, quattro volte tanti rispetto a un anno fa. I partiti si comportano come se fosse un fenomeno governabile senza vittime collaterali. E se gli sbarchi non diminuiscono dopo proposte di blocco navale, dopo aver tenuto i migranti sulle navi quarantena, dopo i decreti sicurezza, dopo gli accordi con la Libia, il dato politico è innegabile: le vite perse nel Mediterraneo sono il prezzo della ricerca di consenso facile.
Articolo di Pietro Forti