The Ride ep.3 – Reddito di Cittadinanza

The Ride è l’analisi della trovata settimanale dei partiti, a caccia di consenso o di potere.

09/03/2023

È il 29 aprile 2018: l’ormai ex segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi, è ospite da Fabio Fazio a Che Tempo Che Fa su Rai 1. Sono passati quasi due mesi dalle elezioni che hanno visto il partito toccare il suo minimo storico dopo cinque anni di governo e dalle sue dimissioni. Il Movimento 5 Stelle è di gran lunga il primo partito col 33%: trionfa grazie alla voglia di rottura che spopola nell’elettorato, ma anche grazie a una proposta per tamponare la povertà che si rivelerà l’unica vera politica di successo in cinque anni al governo. Sta ancora cercando di capire con chi può formare un’alleanza di governo, se con la Lega di Matteo Salvini o con il PD orfano di Renzi (spoiler: durante la legislatura governerà con entrambi i partiti). Tra dem e pentastellati iniziano a esserci segnali di distensione dopo cinque anni di odio puro e una campagna elettorale molto accesa, ma Renzi decide di far capire che un governo non s’ha da farsi, decidendo in diretta TV la linea di un partito di cui non è più segretario. L’ex presidente del Consiglio si mostra molto convinto dell’incompatibilità politica totale tra i due soggetti (altro spoiler: anche lui governerà per un anno e mezzo con i 5 Stelle), e spiega perché Movimento 5 Stelle e PD non possono governare insieme. Oltre alla posizione su alcune questioni critiche su cui i due partiti si sono già fatti la guerra per tutta la legislatura precedente (i vaccini, l’alta velocità sulla Torino-Lione, la questione dell’ILVA di Taranto) Renzi parla anche della proposta del M5S, il reddito di cittadinanza. «Per me è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Io ti pago, cittadino, per non fare niente, 1680 euro per una famiglia in cui il genitore non lavora. Vi sembra giusto? A me no. Secondo me bisogna andare a lavorare, in Italia, bisogna creare le condizioni per creare lavoro, non dare un sussidio a tutti».

Al di là di quanto le dichiarazioni del senatore fiorentino fossero distanti dalla realtà dei fatti, questa linea anti-RdC, promossa allora dal partito che dal 2007 si definisce la prima forza progressista del Paese, spiega bene l’astio che la politica ha sempre provato contro la singola misura che più ha contribuito al successo del Movimento 5 Stelle. Una misura rivolta a una platea molto estesa di persone, liberamente tratta da un’idea di sinistra innovativa come quella del reddito di base universale: per questo non poteva che risultare indigesta a un partito già allora poco votato dalle classi meno abbienti. Ci è voluto molto tempo prima che il PD riconoscesse che il reddito di cittadinanza è compatibile con delle politiche “progressiste”. Ad aprile 2020, un esponente di primo piano del partito come il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini sosteneva che fosse «più dignitoso alzarsi dal divano che ricevere l’assegno» o che «chi prende il reddito di cittadinanza può cominciare ad andare a lavorare lì [nei campi dove durante la pandemia mancavano braccianti, ndr] così restituisce un po’ quello che prende», sottintendendo che ci fosse qualcosa da restituire, di sottratto illegittimamente. Allo stesso modo, la Lega ha fatto fatica a distanziarsi dal provvedimento dopo averlo approvato durante l’esperienza di governo gialloverde.

La verità è che screditare il RdC è sempre stato un lavoraccio. Certo, lo strumento non è mai stato perfetto. Prende ispirazione da una rivendicazione tutto meno che “lavorista” come il reddito universale di base e lo collega inutilmente alla ricerca del lavoro. Inoltre, esclude dalla platea dei potenziali percettori milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà (che in Italia sono circa 5,6 milioni di persone secondo Istat). Come se non bastasse, esclude moltissimi non italiani poveri, che possono accedervi dopo dieci anni di residenza in Italia, criterio piuttosto bizzarro. Ma di fronte due milioni e mezzo di percettori che senza il reddito sarebbero piombati nella disperazione non basta sostenere che non funzioni alla perfezione. Un ottimo esempio: il caso di Carlo Calenda, che si sbilanciò a dichiarare che «se si mettono tremila scappati di casa che non hanno mai lavorato a trovare lavoro, con pochissime connessioni con i sistemi regionali, il risultato è che non trovano lavoro a nessuno». Come se fosse una colpa da imputare ai navigator “scappati di casa” l’incapacità di trovare un lavoro dignitoso a persone vulnerabili.

Allo stesso tempo è sin troppo facile dare dei fannulloni irresponsabili campati da noi. Ed è la chiave di volta per attaccare i percettori, ma stavolta non in maniera indiscriminata. Nel mirino degli attacchi della destra finiscono gli “occupabili”, ovvero 660.000 persone che sulla carta potrebbero lavorare e che non lo fanno perché, evidentemente, sono sanguisughe di natura. Il 48% di queste persone ha più di quarant’anni, il 70% ha la terza media, meno del 3% ha una laurea. Ma ora la destra ha deciso: da settembre il reddito di cittadinanza lascerà il posto a una nuova misura, la Misura di Inclusione Attiva, che andrà a escludere gli “occupabili”, darà meno soldi ai percettori e soprattutto glieli garantirà per un lasso di tempo minore. Nel 2017 il PD puntava su una misura volta a contrastare politicamente la forza del reddito di cittadinanza, già da tempo bandiera del M5S. Si chiamava Reddito di Inclusione. Persino le alternative proposte dai partiti avversari dei 5 Stelle si assomigliano. 

Si vuole ripensare il RdC non come un aiuto più efficace a chi ne ha bisogno ma come un modo per rientrare nel mondo del lavoro, fuori dal quale o si è degli scarti o si è dei fannulloni. E se questo poteva essere un non-detto fino a un anno fa, con la campagna elettorale dell’estate 2022 è diventato palese: la destra, e in particolare la Lega, proponeva di togliere soldi dal reddito di cittadinanza per darli direttamente ad agenzie del lavoro (soggetti privati) per trovare un’occupazione agli ex-percettori come lavoratori in somministrazione (che mediamente guadagnano meno di 10.000 euro l’anno). Allo stesso modo, il Terzo Polo aveva l’obiettivo di abolire in tronco il reddito per gli stessi “occupabili” e lo stop all’erogazione del reddito di fronte al rifiuto di un’offerta di lavoro definita “congrua” non si sa bene secondo quali parametri.

L’abolizione tout court del reddito, tuttavia, non è mai più stata oggetto di discussione a partire dalla pandemia: di fronte all’efficacia di una misura comunque insufficiente tutti i partiti hanno fatto una retromarcia, chi parziale chi quasi completa. Ma in politica vince anche chi si differenzia. E dimostrarsi distanti dai poveri fa breccia nel cuore di certi elettori.

Articolo di Pietro Forti