The Ride ep.4 – Il nuovo PD

The Ride è l’analisi della trovata settimanale dei partiti, a caccia di consenso o di potere.

16/03/2023

La vittoria di Elly Schlein alle primarie del PD è stata una sorpresa e, per molti all’interno e all’esterno del partito, una boccata d’aria. L’ex europarlamentare e vicepresidente della Regione Emilia-Romagna ha sempre rappresentato le istanze più progressiste del centrosinistra. È la prima donna a ricoprire la carica, e probabilmente anche la prima persona ad avere il carisma necessario per essere una leader credibile senza manifestare sintomi di megalomania. Era uscita dal PD in aperta polemica con le riforme del periodo renziano come molti altri, ma è stata l’unica capace a sinistra di trovare lo spazio politico necessario per “prendersi” il partito.
In realtà Schlein deve ancora mettere le briglie al PD. Il primo turno delle primarie, quello rivolto esclusivamente agli iscritti del partito (poco oltre 151.000 votanti), aveva visto una vittoria schiacciante di Bonaccini con quasi venti punti di distacco (52,87% a 34,88%). Con il trionfo inaspettato del secondo turno delle primarie, per la prima volta, si è assistito a un ribaltamento di questo risultato grazie alla partecipazione dei non iscritti. Questo non solo testimonia la scarsa presa di Schlein sulla base di iscritti del PD, ma anche il poco appoggio di cui gode da parte delle correnti interne e dei loro “capi”.

Il 12 marzo l’Assemblea nazionale del partito ha confermato l’elezione di Schlein e ha votato anche la nuova direzione. È ancora difficile stabilire quanti e quali dei 175 membri che la compongono saranno un problema per la gestione del PD di Schlein, soprattutto su temi caldi e cari all’ala progressista che l’ha portata alla segreteria. Clima, diritti civili, lavoro, migrazioni sono temi che dividono il partito. Schlein ha già varie volte chiamato all’unità, ma nonostante la nomina di Bonaccini a presidente ci credono in pochi.

Quindi, ecco otto nomi della nuova che potrebbero rappresentare un problema per la segreteria targata Elly Schlein.

Lia Quartapelle

È stata rieletta per la terza volta alla Camera dei Deputati nel 2022, ed è nuovamente nella direzione del partito. Ma, soprattutto, è la responsabile Esteri uscente del partito. 

Nel corso dell’ultimo anno la sua attività si è concentrata soprattutto sull’invasione russa dell’Ucraina, e a Quartapelle è toccato il compito di garantire al governo di Zelensky l’incrollabile sostegno del PD, che ha votato sempre favorevolmente all’invio di aiuti e in particolare degli armamenti necessari alla resistenza ucraina. Se il PD mantiene una linea indiscutibilmente vicina alla NATO è soprattutto grazie a lei.

Ma la deputata è anche per essere una delle principali voci pro-Israele nel partito. Da sempre contraria alle politiche aggressive promosse da Netanyahu, si è comunque dimostrata critica sul numero «eccessivo» di risoluzioni adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che «discriminano» Israele. Elly Schlein, dal canto suo, ha sempre mantenuto posizioni critiche sull’operato di Israele nei territori palestinesi. 

Quartapelle può essere un ostacolo interno alla linea della nuova segretaria del partito soprattutto sul tema caldo del momento, l’immigrazione. Se Schlein è stata (anche di recente) tra le voci più forti contro il rinnovamento dei finanziamenti alla Guardia costiera libica, la deputata del PD ha sempre difeso i memorandum con la Libia, proponendo un rifinanziamento al livello europeo.

Andrea Orlando

È tra i leader dei cosiddetti “laburisti” del Partito Democratico. Inizialmente era titubante di fronte alla candidatura di Elly Schlein, che alla fine ha deciso di appoggiare per evitare di sfaldare la sinistra del partito. Già ministro della Giustizia (governo Renzi) e del Lavoro (governo Draghi), Andrea Orlando è stato firmatario insieme a Marco Minniti di uno dei decreti anti-immigrazione più duri della storia recente, volto a una gestione più agile delle espulsioni dall’Italia. È in questo contesto che sono arrivati alla loro forma attuale i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), luoghi dove i diritti delle persone non italiane sono completamente azzerati.

Nel 2021, durante i primi mesi dell’esecutivo guidato da Mario Draghi, il ministro Orlando aveva dato compito a un comitato scientifico guidato dalla professoressa Chiara Saraceno di studiare delle proposte per migliorare l’efficacia del reddito di cittadinanza. Questa commissione presenta i suoi risultati a novembre 2021, ma il ministero ignora le proposte. In compenso nell’estate del 2022, a governo Draghi caduto, il PD le inserirà nel suo programma elettorale.

Mattia Santori

La sua presenza nella direzione del Partito Democratico si commenta da sola. Lui e Jasmine Cristallo sono i due leader del movimento delle Sardine eletti tra i 175 nuovi dirigenti a tre anni e mezzo dalla prima manifestazione del novembre 2019 a piazza Maggiore. Sono una delle tante quote “civiche” nella direzione, anche se il movimento si è gradualmente spento. Intanto, però, Mattia Santori è stato eletto consigliere comunale nella sua Bologna, diventando più oggetto di meme che agitatore di dibattito politico. Tra erasmus tra Nord e Sud, battute poco consone sulla tossicodipendenza di Luca Morisi (l’ex responsabile della comunicazione di Matteo Salvini), stadi del frisbee, Santori da anni colleziona figuracce un po’ ovunque. Oggi è uno schleiniano di ferro, ma pochi più di lui e delle Sardine hanno contribuito alla riconferma di Stefano Bonaccini (che lui stesso definiva un “buon amministratore”) alla guida dell’Emilia-Romagna nelle amministrative di gennaio 2020.

Simona Bonafè

«Non lo seguirò, non condivido la sua scelta ma la rispetto». Quando nel 2019 Matteo Renzi lasciò il Partito Democratico lo seguirono in molti, ma non tutti. Simona Bonafè è una delle poche orfane a non aver seguito il leader nella scissione che portò alla nascita Italia Viva. Renziana della primissima ora, curò la comunicazione dell’allora sindaco di Firenze quando si candidò alle primarie per la coalizione Italia Bene Comune nel 2012. È tra coloro che nel PD hanno sempre difeso a spada tratta le riforme volute dal governo Renzi, prese di mira proprio da colei che oggi è al vertice del PD. Come tutta l’area degli ex-renziani, ha appoggiato il perdente Bonaccini. Ma nel nuovo PD di Schlein l’unità si fa anche e soprattutto con la spartizione dei ruoli. Bonafè è appena stata eletta per la prima volta a Montecitorio dopo quasi un decennio da europarlamentare, ma proprio perché è “nuova” alla Camera potrebbe sostituire Debora Serracchiani (anche lei bonacciniana alle primarie) come capogruppo. Un ruolo molto pesante da affidare a una nostalgica dei giorni del giglio.

Michela Di Biase

Fa bene a definire «misogino e maschilista» chi la individua solo come «moglie di Dario Franceschini». Michela Di Biase ha solo 42 anni ed è già un nome di peso della politica italiana. Si è fatta le ossa nel partito romano, dov’è stata capogruppo dell’opposizione PD a Virginia Raggi. Sarà la forza dell’abitudine: tutti parlano dell’intuizione “imprevista” di suo marito, che ha appoggiato Schlein nonostante tutto indicasse che potesse appoggiare il più moderato dei candidati, ovvero lo sconfitto Bonaccini. Intanto, però, Dario Franceschini nella direzione del PD non c’è. Di Biase sarà appena diventata parlamentare per la prima volta, ma governa una corrente fortissima del centro del PD. Che prima di Schlein ha appoggiato tutti e tre i precedenti segretari eletti: Renzi, Zingaretti e Letta. Secondo qualcuno potrebbe essere lei la nuova capogruppo del PD alla Camera.

Goffredo Bettini

Il dirigente romano ci ha messo un po’ a capire chi appoggiare. Dopo essere stato con successo uno dei principali sponsor della candidatura di Nicola Zingaretti nel 2019, nel 2023 avrebbe voluto un altro amministratore a capo del partito. Ma il nome a cui pensava, il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, non è così noto ai più, e soprattutto è finito ad appoggiare Bonaccini “da sinistra”. Alla fine ha puntato su Schlein, e la scelta sembrerebbe aver pagato di nuovo. 

Goffredo Bettini è un moloch della sinistra del partito, e dopo il fallimento renziano è stato lui a intuire un possibile spiraglio d’intesa tra il PD e il Movimento 5 Stelle. Poi ha stretto un po’ troppo con Conte, che nel 2019 era pur sempre il presidente del Consiglio “figlio” di Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Con l’attuale leader 5S, nonostante la rottura tra i due partiti, continua ad avere un buon rapporto. 

Chi lo vedeva (o sperava) estromesso comunque se lo ritrova in direzione.

Claudio Mancini

C’è stato un tempo in cui il PD non esisteva formalmente, e la galassia del centrosinistra era letteralmente frutto del dialogo tra più partiti. Se vi sembra caotica la situazione ora, pensate cosa doveva essere arrivare a una linea comune a cavallo tra anni Novanta e Duemila.

In quel periodo Claudio Mancini non era ancora il “ras”, come poco affettuosamente qualche giornale lo definisce oggi, ma già dal 1989 era stato eletto nei consigli di circoscrizione (oggi i municipi). Seguiva Massimo D’Alema in ogni avventura.

Nel 2023, invece, è un super dirigente del PD romano. Ha passato tutto il periodo renziano lontano dalle istituzioni ma non dal PD. Dopo una vita per il partito nella Capitale, di cui ha fatto il tesoriere fino a ieri, è stato eletto parlamentare per la prima volta solo nel 2018, quando comunque i candidati li decise sostanzialmente Renzi. È stato il principale fautore della candidatura del suo amico di sempre Roberto Gualtieri a Roma.

Piero De Luca

Un cognome, una garanzia. Piero è figlio di Vincenzo, sindaco di Salerno per quattro mandati e presidente della Regione Campania dal 2015, tanto potente da essere chiamato, tra i tanti soprannomi, “il vicerè”. «Vedo un periodo di grande effervescenza e di grande allegria davanti a noi»: questo sarcastico commento di Vincenzo dovrebbe bastare a far capire che i De Luca sono tutto meno che sostenitori di Schlein. Bonaccini aveva persino scelto Piero come coordinatore per le politiche per il Sud durante la sua corsa alle primarie. D’altronde il professor De Luca è un ex renziano convinto: nel 2016 è stato tra i principali fautori del Sì al referendum costituzionale, arrivando a sostenere che fosse un voto per «liberarsi da vincoli nostalgici». 

Alle elezioni politiche del 2018 il PD lo schiera in Campania come candidato al collegio uninominale della sua Salerno, dove però arriva dietro sia al Movimento 5 Stelle sia alla destra. Viene comunque eletto grazie al “paracadute”, ovvero l’inserimento nelle liste proporzionali. Dal 2021 è vicepresidente dei gruppi parlamentari del partito.

Articolo di Pietro Forti