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The Ride ep.6 – Lollobrigidate
The Ride è l’analisi della trovata settimanale dei partiti, a caccia di consenso o di potere.
Nello scenario politico italiano è buona abitudine che a farsi portatori dei proclami propagandistici siano i leader di partito, anche e soprattutto se si trovano a ricoprire cariche istituzionali. Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, entrambi presidenti del Consiglio a lungo, ne sono un’ottima dimostrazione di come dettare la linea rimanendo sempre al centro dell’attenzione. Della permanenza al Viminale di Matteo Salvini, poi, ancora oggi si ricorda poco, se non l’atteggiamento violento nei confronti delle migrazioni (delle quali ancora esistono strascichi processuali che vedono imputato proprio Salvini) e i tour in giro per lo Stivale con indosso ogni volta una divisa diversa delle Forze dell’Ordine, di cui era rappresentante come ministro dell’Interno. Ancora oggi il segretario leghista deve continuamente intestarsi battaglie come il Ponte sullo Stretto, opera a dir poco controversa su cui per ora si è basata l’intera esperienza di Salvini al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
Salvini, però, non è il principale autore delle bordate propagandistiche di cui si rende protagonista la maggioranza, sempre a caccia di consensi sostitutivi di quel che viene perso per strada durante l’esperienza di governo. I presidenti del Consiglio della legislatura passata non avevano dovuto fare le veci degli agitatori di piazza: Giuseppe Conte non era ancora leader incontrastato del Movimento 5 Stelle e quello di Mario Draghi era il governo tecnico per eccellenza. Giorgia Meloni, quindi, ha dovuto rifare i connotati alla propria figura pubblica per evitare le inevitabili critiche sui toni poco “istituzionali” che l’avevano sempre caratterizzata.
Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, sta dando il suo prezioso contributo alle speranze di Fratelli d’Italia di rimanere un partito più di lotta che di governo. Ma il più serio e fiero alfiere del populismo spicciolo del partito guidato da Meloni è nientemeno che suo cognato.
Francesco Lollobrigida ha 51 anni, compiuti da poco. È ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, concetto a cui tiene molto, pur rifacendosi a esperienze estere per dargli valore: «Il ministero francese aveva un bel nome che noi abbiamo voluto utilizzare e credo sia una cosa importante, quella di sottolineare come la difesa dell’imprenditore agricolo e del prodotto agricolo nazionale sia per noi una priorità».
Non che Lollobrigida se ne fosse mai occupato in passato. La sua storia è quella di un politico di razza, buono per ogni posto ove il suo partito abbia bisogno del suo carisma per portare avanti certe battaglie. Lollobrigida, d’altronde, ha iniziato prestissimo nel Fronte della Gioventù, giovanile del Movimento Sociale Italiano. In qualche occasione ha parlato di “quando faceva politica all’università”, anche se si è laureato in giurisprudenza all’Università telematica Niccolò Cusano. Ciò perché non era per gli universitari che svolgeva le sue funzioni politiche in gioventù, bensì per gli studenti medi, come responsabile nazionale di Azione Studentesca. Le prime cariche arrivano a 24 anni quando viene eletto consigliere comunale a Subiaco per poi essere eletto consigliere provinciale a Roma due anni dopo. Il primo ambito di lavoro è lo sport come assessore ad Ardea. Sbarcato nel consiglio regionale del Lazio, con la destra è al governo nel 2010 e cambia di nuovo, diventando assessore ai trasporti, ambito dove non è semplice fare più politica che amministrazione.
Ma essere sempre al fianco di Giorgia Meloni è una garanzia di riuscita quando si tratta di non abbandonare la retta via propagandistica. Delle proprie passate esperienze Lollobrigida non fa menzione nella dichiarazione di cariche e professioni precedenti, compilato è stato eletto alla Camera per la prima volta nel 2018. Non parla dei vent’anni spesi a ricoprire cariche di rappresentanza e di governo: cita solo il “lavoro privato”.
I legami con Meloni non sono solo quelli politici della “generazione Atreju”, kermesse ex-giovanile intorno a cui si è formata la vera identità di Fratelli d’Italia oltre il neofascismo e oltre la disfatta della generazione politica di Gianfranco Fini. Come già accennato e come lui stesso ricorda scherzosamente, Lollobrigida è “parente da una vita”. È marito di Arianna Meloni, sorella della presidente del Consiglio.
Da ministro dell’Agricoltura super-politico non si occupa dei grossi problemi del suo dicastero, che al di là della “sovranità alimentare” ha molte gatte da pelare (basti pensare che il commissario alla siccità probabilmente sarà Salvini). Quindi, il compito di Lollobrigida è creare diversivi, fare polemica e tirare fuori dal cappello leggi su temi polarizzanti. Spesso sono provvedimenti di nessuna urgenza.
Un esempio plastico è il tentativo di organizzare una task force in difesa della tradizione culinaria italiana nel mondo, una rappresentanza politica per gli italians mad at food: una squadra di assaggiatori che si occupi di verificare quanto siano italiani i piatti consumati all’estero all’ombra di tricolori immeritati. Laddove, però, la task force non ha implicazioni pratiche nell’immediato, un provvedimento come quello preso dal governo contro la produzione, l’importazione e la distribuzione di carne coltivata in laboratorio (la cosiddetta “carne sintetica”) ha implicazioni molto reali. La produzione, in particolare, è bloccata in caso di contravvenzioni con l’ausilio di multe fino a 60mila euro. Lollobrigida, che del disegno di legge è il principale sponsor, ne parla come di una norma dettata dal buon senso, perché la carne sintetica è “meno qualità, meno benessere, meno tutela della cultura” e “più ingiustizia sociale, più disoccupazione, più rischio per l’ambiente e per la biodiversità”. Su qualità e benessere si può trovare un riparo nella “precauzione”. Come per ogni avanzamento tecnologico, l’impatto sul mondo del lavoro e quindi la “disoccupazione” sono preoccupazioni più che legittime. Ma la veste ecologica non dona a questo provvedimento: la carne sintetica è un buon metodo per produrre carne senza usare quantità abnormi d’acqua e senza consumare troppo suolo. Soprattutto, senza uccidere l’animale. Ma d’altronde, il ministro aveva già detto la sua a riguardo al recente congresso Federparchi. In una mirabile apologia della caccia il ministro Lollobrigida aveva dichiarato senza esitazioni che «è sbagliato guardare gli animali con sentimento».
Un altro esempio di come la linea dettata dal governo su certi temi possa essere esclusivamente ideologica senza troppo bisogno di affrontare seriamente le ricadute di certi provvedimenti è la battaglia su uno dei prodotti agricoli più cari a chi difende la sovranità e l’identità alimentare italica: il vino. Quando l’Irlanda ha proposto di introdurre sulle bottiglie di alcolici un’etichetta simile a quella presente su sigarette e tabacchi con la dicitura “nuoce gravemente alla salute” l’Italia si è sentita attaccata su più fronti. Sia perché, a detta del ministro, l’Irlanda non deve preoccuparsi della propria produzione vinicola, sia perché non tutti gli alcolici sono uguali. Da una parte gli irlandesi, per citare il ministro, «la birra la usano per idratarsi»; dall’altra, «tanti medici dicono che un bicchiere di vino non fa male, anzi fa bene». Due dichiarazioni completamente in disaccordo con l’idea di prevenzione dell’alcolismo, oltre che con la scienza. L’Irlanda stessa, d’altronde, sarebbe colpita nel proprio export, dal momento che l’etichetta anti-alcolici sarebbe presente anche su whisky e birre prodotte in Irlanda con brand riconoscibili in ogni pub del globo.
Le battaglie politiche del ministero dell’Agricoltura, tuttavia, non si fermano certo a questioni identitarie: è parte fondante anche nella lotta senza quartiere del governo contro il reddito di cittadinanza. Lollobrigida, dal palco del Vinitaly, ha dichiarato applauditissimo che «un’altra cosa che va fatta è mettere in condizione coloro che possono lavorare di capire che non è svilente lavorare in agricoltura, lavorare nell’allevamento. Lo dico a tutti quelli che pensano di poter stare sul divano, ricevere il reddito di cittadinanza perché il lavoro fatto nei campi è un lavoro “indegno” da consegnare solo a nuovi schiavi provenienti da fuori».
Ma contro la schiavitù di chi lavora nei campi il governo ha fatto ben poco. La ricetta contro lo sfruttamento dei braccianti e il caporalato sono le stesse di sempre: fermare l’immigrazione, con nessun intervento ad hoc. Giorgia Meloni nel 2016 lo diceva chiaramente: «il principale caporale in Italia è il Governo, con le sue surreali politiche di immigrazione incontrollata». D’altronde sull’immigrazione Lollobrigida non aveva idee chiarissime. Di fronte alla mancanza di manodopera qualificata non formata, appunto, da “schiavi” il ministro a fine febbraio parlava di migliore organizzazione dei flussi regolari per garantire «a coloro che vengono in Italia per lavorare un trattamento dignitoso». Aggiungendo, con una svista non da poco: «Noi solo quest’anno lavoreremo per far entrare legalmente quasi 500.000 immigrati». Il decreto flussi per il 2023 prevede l’ingresso in Italia di 82.000 di questi lavoratori, meno di un quinto di quanto dichiarato dal ministro.
Francesco Lollobrigida è protagonista di una brillante carriera al servizio della propria famiglia politica. Ciò vuol dire dare la priorità alla caccia al voto anche mentre si ricopre una carica, cosa che Lollobrigida fa quasi ininterrottamente dal 1996. La risoluzione delle continue crisi che questo governo deve e dovrà affrontare, evidentemente, è in secondo piano.
Articolo di Pietro Forti