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Titane: “Nessuno mi può giudicare”
Un film tecnicamente perfetto che ci parla delle inquietudini più scottanti del nostro tempo
Il sottoscocca di una macchina ringhia, sbuffa, fa le fusa. Dalle giunture del telaio e lungo l’ossatura sudaticcia, sanguina un liquido nerastro, sicuramente olio motore. Siamo alle prime inquadrature, il film è iniziato da trenta secondi appena, eppure già trasmette un palpabile senso d’inquietudine. Non sono solo i ronzii delle cinghie e dei pistoni, che da sotto il cofano danno quasi l’impressione di trovarsi nelle fauci di una qualche bestia ferale. Né il sottofondo bluegrass di Wayfaring Stranger dei 16 Horsepower che, come attutito da una vecchia radio, aggrava il senso di claustrofobia. Piuttosto è la sensazione di non star guardando affatto un motore d’automobile: per un attimo, una delle sue componenti, rossastra in mezzo alle cromature, somiglia allo scalpo di un cranio sul vassoio di una sala operatoria. La cinepresa, non c’è dubbio, sta dissezionando quel corpo con occhio anatomico, come fosse cosa viva. Si presenta così Titane, capolavoro, film di Julia Ducournau che a Cannes si è aggiudicato la Palma d’Oro, lasciando spiazzata metà kermesse e spingendo l’altra metà, scandalizzata, a definirlo “un film in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac” – com’è stato ironizzato, fra gli altri, dallo sconfitto Nanni Moretti. Mai giudizio fu più svalutante, superficiale e di corte vedute.
Close your eyes and I’ll scare you
In linea con una certa abitudine del panorama recente, Titane può apparire, almeno nella prima mezz’ora, come uno di quei tipici film estremamente generosi di riferimenti cinematografici, impeccabilmente curati dal punto di vista tecnico – anche se, già in un tale livello di perfezione, c’è ben poco di comune – ma sostanzialmente poveri di contenuto. Nell’opera seconda di Julia Ducournau questo sentore, di una preminenza totalizzante dell’esercizio stilistico, resiste solo a una prima impressione, fra l’altro graditissima. La regista mette in chiaro fin da subito le sue capacità: nelle inquadrature e nella fotografia, condicio sine qua non, ma soprattutto nell’uso quasi sinestetico di un sonoro davvero coinvolgente, che ci costringe ad ascoltare tutte le scene che non vorremmo guardare. Ma non prima di aver chiarito alcune coordinate sulla protagonista, una ragazza che ama i motori tanto quanto odia i suoi genitori. Interpretata dalla notevole Agathe Rousselle, Alexia ha un’attrazione ossessiva, quasi autistica, per le automobili, accresciuta dopo che un’incidente stradale l’ha resa, ancora bambina, un po’ più simile a loro. Fissatale al cranio, la placca di titanio che dà il titolo al film rimanda fin da subito al Crash di David Cronenberg, tratto da uno scritto omonimo di J.G. Ballard in cui la commistione di lamiere e corpi mutilati, frutto di incidenti stradali, dava vita a nuovi ibridi, orrorifici e pornografici: “Scontro automobilistico e sessualità s’erano uniti in un matrimonio definitivo” – cita il romanzo. Nella scena successiva troviamo Alexia, già grande, aggirarsi e poi esibirsi senza stacchi di montaggio in un autosalone dove le livree fiammanti delle hot rod e delle muscle car si fondono con i corpi delle ballerine. Il piano sequenza è di quattro minuti, l’erotismo alle stelle grazie anche al contributo di uno dei brani, originali e non, che faranno da colonna spinale a molte scene: Doing It to Death dei The Kills, graffiante e conturbante. Poco più avanti invece, in una scena che rivela le pulsioni omicide seriali di Alexia, la regista fa un uso geniale e surreale di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli, mettendola in pausa e in riproduzione a ogni nuova vittima e ricreando qualcosa di simile al massacro familiare di Jordan Peele in Us, con contrappunto musicale Good Vibrations dei Beach Boys. Ducournau insomma mostra i muscoli, come una Mustang che romba più forte delle altre, arrogante, ai blocchi di partenza. Ma contro il cliché cinematografico, non brucia lo spinterogeno e anzi taglia il traguardo alla grande, spingendo l’acceleratore sui contenuti e scalando le marce tematica dopo tematica.
Motori per organi caldi
Quello di Cronenberg è solo uno, il più citato, dei tanti nomi dell’horror che Ducournau recupera e poi riconsegna, stravolti, al cinema del futuro. C’è sicuramente un po’ di John Carpenter nella scena più iconica di Titane: quella in cui, effettivamente, Alexia ha un rapporto e rimane incinta di una Cadillac, molto simile per indole alla Plymouth di Christine – La macchina infernale e come lei ripresa dal basso, perché visti frontalmente i fanali abbaglianti e la griglia mascherina hanno sempre un che di mostruoso. Termini da meccanico per affetti da meccanofilia, patologia rara che qui si presta a mille interpretazioni, le meno interessanti: che nel mondo della velocità, con un volante nella mano e un telefono nell’altra, ci fondiamo e confondiamo con le macchine a tal punto, che le nuove generazioni si ritroveranno titano e alluminio, al posto della spina dorsale; oppure che la nostra sessualità, vissuta ed espletata in modo meccanico, ci rende più attraente, più umana e affine, un’automobile, piuttosto che un uomo – o una donna. Aspetti di contorno, già detti e ridetti dal cinema e da tutti gli altri, che in Titane lasciano il posto a temi molto più urgenti, scottanti e terribilmente reali. Perché no, Titane non parla di una ragazza che rimane incinta di una macchina: è solo l’espediente, l’elemento soprannaturale e provocatorio, in un contesto di realismo magico che ci parla di tutt’altro. Non è errato riconoscervi quello che, in gergo cinematografico, Alfred Hitchcock coniò come MacGuffin, vale a dire un oggetto o evento all’inizio dell’intreccio che, cruciale per i personaggi, non ha poi – o non dovrebbe avere – alcuna importanza per lo spettatore. La storia del cinema ne è piena: è solo un pretesto narrativo che viene dimenticato dopo aver messo in moto (giustappunto) l’altra storia, quella di cui poi il film parla realmente. In altre parole, se fosse vero che Titane parla di una donna che rimane incinta di una macchina, altrettanto Psycho dovrebbe parlare di una che ruba una busta piena di soldi. Nel primo caso però, prima di passare alle istanze reali, serve una premessa di soggetto: braccata per la scia di omicidi, Alexia si deturpa il volto e nasconde le curve per rassomigliare alla foto segnaletica (invecchiata) di un bambino scomparso da dieci anni, Adrien. Verrà accolta dal padre di questi, ignaro e disperato, un pompiere imbottito di steroidi e interpretato dal fenomenale Vincent Lindon.
Di che cosa parliamo quando parliamo di Titane?
Titane parla innanzitutto di maternità, al plurale. Di maternità non volute, di quelle arrivate e di altre di là da venire. Salvo la reale natura del padre, quella di Alexia è affrontata in modo molto classico: la paura nei confronti di qualcosa di spaventoso, di non voluto, che cresce nel ventre nonostante i (maldestri) tentativi di aborto. Poi le scuse dopo averlo preso a pugni e i sorrisi mentre scalcia. In fondo, scene così si sono viste in altre migliaia di film: a contare per la madre è il bambino e ciò che comporta, chi o cosa sia il padre è un dettaglio superfluo che solo lo spettatore (superficiale) può reputare importante. Semplicemente il padre non c’è, è scomparso dopo una notte in discoteca: come per la Vergine Maria, quella di Alexia è una (non esattamente) immacolata concezione che darà alla luce il nuovo Messia, su sottofondo trionfante di musica sacra, anche se la cinepresa indugia a lungo prima di inquadrarlo, un po’ come il figlio del Diavolo in Rosemary’s Baby di Roman Polanski.
Titane parla anche d’identità di genere e sessuale in molte sue sfumature, nonché del peso di vivere da donna in un mondo di uomini: Alexia/Adrien è a tratti omosessuale, a tratti asessuatə; prima una lei e poi un lui. Come nel montaggio sonoro però, in cui i decibel sono perfettamente bilanciati fra musiche e suoni ambientali, ognuna di queste sfumature ha il suo peso, mantiene la sua singolarità, non genera un miscuglio.
Titane parla infine del grande spettacolo della vita e del suo svolgersi: bambini che nascono; famiglie che si ricostituiscono; padri che invecchiano nonostante cerchino di rimandare in ogni modo, prendendosi cura di chiunque, anche non un figlio, per rendere l’ultima parte del viaggio meno pesante. Non potendo più dare cattivo esempio, la madre (fallita) di Adrien offre un buon consiglio ad Alexia: “Prenditi cura di lui, da solo non ce la fa” – potrebbe riferirsi al nonno come al nipote. Vincent, dal canto suo, ribalta lo scenario: “Sono io che mi prendo cura di te, non l’inverso”. I registri, per l’ennesima volta all’interno del film, mutano radicalmente assieme alla musica: con She’s Not There degli Zombies, si viene proiettati in tutt’altro genere, quasi una commedia drammatica a tema familiare. E la mamma incinta della macchina assassina balla col suo papà in un pride di pompieri e spogliarellisti inconsapevoli, con il vestito a fiori giallo che le va sempre più corto, sempre più stretto.
Titane, per un cinema del domani
Titane parla insomma di accettazione: di sé stessi, della propria identità, della propria maternità e dei propri figli, chiunque essi siano o decidano di essere. “Non mi interessa chi sei. Sei mio figlio, sarai sempre mio figlio, chiunque tu sia” – dirà Vincent. Alla resa dei conti, persino lo spettatore è chiamato in prima persona ad accettare quello che è, sostanzialmente, un film incredibile, densissimo, che offre tutto lo spettro di esperienze umane: vita, morte, miracoli. Ciò che appare ancor più incredibile, l’evento più significativo, è che una pellicola così – un body horror, anche se la categorizzazione per genere suona riduttiva e inutile – abbia potuto vincere a Cannes. Ma a stupire più di tutto sono le parole di Julia Ducournau, che all’anteprima del film si trova costretta a invocare l’aiuto del primo pubblico in sala affinché lo difenda da quelli che verranno dopo: un timore coerente alla società di oggi, così bigotta e conservatrice; ma che debba persistere anche nel mondo del cinema, è piuttosto sconfortante e dovrebbe preoccupare. Alla fine però, Titane mette in guardia anche da questo: con la mamma che s’avvia dolorante, nuda e sfilacciata sotto le bandiere a festa, come la Marianne di Delacroix, questi orrori ci parlano anche un po’ di Francia e del resto del mondo. E di tutto quello di cui il mondo non parla, perché incapace di accettarlo. In fondo, rigettare questo film non fa poi tanto scandalo. Significa solo dire: “Ok, faccio parte di questo mondo”. Ma una cosa rincuora e ci convince, come la citazione ma in senso buono, che non saremo ancora a lungo un paese per vecchi: girare lo sguardo verso gli altri spettatori in sala, in questa piccola fetta di mondo protetta; ai loro occhi spalancati che si cercano, estasiati e commossi, attoniti e increduli per ciò che hanno appena visto.
Articolo di Carlo Giuliano