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Tra centri sociali e avanguardia
La Pantera nella cultura degli anni '90
Trent’anni fa, da Nord a Sud, la Pantera invadeva le aule universitarie coinvolgendo migliaia di studenti. Nasceva così, nelle facoltà occupate, il movimento studentesco destinato a segnare profondamente la cultura politica degli anni ’90. E non solo. All’alba di una nuova epoca fu insieme la fine di un’era di movimenti e l’inizio di un nuovo modo di intendere l’attivismo.
Parlare della Pantera oggi vuol dire quindi parlare di quel movimento prima silenziato, poi dimenticato che ci può aiutare a comprendere il nostro presente politico.
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Roma, Piazza del Popolo: è il 3 febbraio del 1990 e sul palco sale un gruppo che suona a un ritmo nuovo: è l’Onda Rossa Posse che infiamma la folla al suono del rap di “Batti il tuo tempo”.
La folla è quella dei ragazzi e ragazze liceali e universitari del corteo nazionale della Pantera. Il concerto chiude il partecipatissimo evento e inaugura una nuova stagione, quella degli anni ’90, caratterizzata da un nuovo modo di fare e intendere la cultura. Nasce così in Italia l’era delle avanguardie artistiche e musicali e inizia la fase più esaltante e prolifica dei centri sociali che diventano i luoghi privilegiati per le nuove sottoculture. Del resto è la stessa Onda Rossa Posse a citarli nei testi delle sue canzoni. In “Batti il tuo tempo”, ad esempio, si parla del Leoncavallo di Milano, uno dei primi centri sociali occupato nel 1975, da molti considerato l’archetipo per eccellenza.
I centri sociali quindi esistevano già da tempo. Le prime occupazioni di spazi in contesti urbani risalgono agli anni ’70 sotto la spinta dell’esigenza di rappresentare chi era tagliato fuori dai meccanismi della rappresentanza tradizionale, quella che veniva definita “seconda società”, ovvero i giovani senza lavoro ed emarginati. Paolo Perrini, presidente di Spin Time Labs, se lo ricorda bene: “Lo sviluppo dei centri sociali è stato più che altro una risposta al concetto per cui all’epoca la società vedeva i giovani come un elemento di precarietà del futuro”. Le domande che provenivano da questi ragazzi non si esaurivano però unicamente nella sicurezza di avere un tetto sulla testa ma coinvolgevano anche esigenze di altro tipo. La volontà di affermare nuove forme di socialità, di incontro, di formazione politica e culturale. Gli anni ’80 diventano il periodo di incubazione dei centri sociali prima del boom che si avrà nel triennio 89-91. Da una parte – racconta Perrini – c’era “quel neoliberismo forsennato che ha portato ad una situazione di crisi paurosa, dove appunto i giovani e la precarietà come sistema di vita venivano istituzionalizzati”, dall’altra, si assisteva al ripiegamento di un’intera società nell’ambito della sfera privata.
Così nei vacui e superficiali anni ’80 che spingevano verso l’individualismo di massa, le domande di quanti non si riconoscevano nello stile di vita e nelle forme della socialità mainstream crescono e diventano più pressanti. «Noi siamo il degrado che avanza. Noi siamo i barbari calati per saccheggiare la città vetrina e gozzovigliare sulle sue rovine» recitava il volantino degli occupanti del Brancaleone a Milano, oggi sgomberato, in cui ad essere presa di mira era la patina consumistica della Milano da bere degli anni ’80, quando, ci racconta Perrini, “era centrale la questione degli yuppies e avere successo era il valore più importante, anche a livello culturale, proposto da quel modello di società”.
In questo contesto i centri sociali diventano così, poco a poco, sempre più consapevoli di costituire il terreno per la formulazione di una risposta alternativa a quelle domande, nuovi attori sociali capaci di rappresentare i non rappresentabili.
Comincia così all’interno di questi spazi una febbrile discussione teorica volta a costituire un’identità ideologica nuova che selezionasse dal passato (i movimenti del ’68 e del ’77) solo quello che intendeva trattenere. Questa presa di coscienza fu fondamentale affinché al mondo dei centri sociali si avvicinassero anche tutti coloro che prima non vi avevano mai messo piedi, un po’ per sospetto un po’ perché vittime dell’idea che fossero spazi in cui l’attivismo politico dovesse rimanere l’elemento caratterizzante.
L’apertura dei centri sociali all’esterno, quella che da molti venne definita “la fuoriuscita dalla gabbia” avvenne nel periodo di grandi fermenti a cavallo dei due decenni. A questo fenomeno contribuirono diversi fattori, il più incisivo dei quali forse fu proprio l’esplosione del movimento studentesco della Pantera tra dicembre ’89 e gennaio ’90. Il movimento dovette molto, sin dalle sue origini, all’esperienza dei primi centri sociali che lo influenzarono nella scelta di linguaggi innovativi e nell’adozione delle pratiche del do it yourself, e allo stesso tempo costituì la spinta decisiva per l’espansione e il successo degli stessi. Il movimento della Pantera, infatti, che nacque dalla precisa esigenza di contestare la riforma Ruberti sugli atenei, fu anche un importante movimento culturale: stanchi del linguaggio e delle forme stantie e scontate dei movimenti passati, i militanti volevano aggiornarli adeguandoli alle tendenze delle giovani generazioni di allora. I caratteri impressi nel dna della Pantera (revisione del passato dei movimenti, nuovi stili comunicativi, l’utilizzo del fax) lo resero il megafono perfetto per la diffusione dell’esperienza dei centri sociali.
E nei centri sociali, in quelli già esistenti e nei nuovi che furono fondati, rifluirono, quando l’esperienza delle facoltà occupate cessò e si avverti l’esigenza di spazi alternativi e autogestiti, quelle spinte nuove, quelle realtà culturali, sorte proprio nel grembo della Pantera.
Molti dei giovani che parteciparono alle proteste diventarono in seguito attivi sostenitori dei diritti degli artisti di strada, continuando a sperimentare all’interno dei centri sociali un nuovo modo di fare cultura. Per la scrittrice Tatiana Bazzichelli: “Negli anni ’80 i Centri Sociali nascono proprio per questo… e nello stesso tempo nascono come spazi di networking”. Negli spazi occupati, negli stabili abbandonati, in ex fabbriche, in ville, appartamenti e case sfitte si sono sviluppati i dibattiti sulla condizione giovanile, si sono tenuti happening, sperimentazioni, concerti, assemblee, fino a trasformare detti spazi in luoghi di abitazione. Centrale per la diffusione e attrazione culturale dei centri sociali, veri e propri centri di produzione culturale, è la musica, in quanto in questi spazi si dava la possibilità di avere un’autorganizzazione anche per ciò che concerne i generi musicali della compagine giovanile. I generi più proposti sono il rap e il raggamuffin, la cui origine in Italia va ricercata proprio in questi contesti. Anche nei ragazzi del 1990 il moto di protesta generò un fenomeno di innovatività musicale. I motori centrali di questa prorompente sperimentazione musicale furono l’Isola nel Kantiere di Bologna, il CSOA Officina 99 di Napoli, il Centro Sociale Occupato e Autogestito Leonkavallo di Milano e il Forte Prenestino a Roma. Questi furono alcuni dei centri sociali più importanti in Italia, non a caso situati nelle periferie di grandi città dove la sensazione di alienazione e la conseguente necessità di risposte erano avvertite con più urgenza. Città come Bologna, Napoli, Milano, Torino e Roma, dove non a caso si registra la concentrazione più alta di CSOA (circa 250), hanno da sempre rappresentato la culla di questa galassia in espansione. Particolarmente interessante è il caso romano dove racconta Paolo Perrini “l’esperienza dei centri sociali fu determinata nel 1992 dalla presentazione di una delibera di iniziativa popolare – che è stata poi l’unica nella storia del comune di Roma a tramutarsi in legge nel 1994 dalla prima consigliatura di Rutelli. Io ero tra i primi firmatari assieme a tutti i centri sociali della città”. L’atto era in un certo senso rivoluzionario in quanto modificava radicalmente la condizione e la percezione dei centri sociali stessi: “permetteva l’utilizzo da parte nostra dello spazio pubblico e privato abbandonato a fini sociali” continua Perrini. “Questo determinò il blocco degli sgomberi e le assegnazioni dei centri sociali, istituendo un percorso che fece aprire anche nuovi centri sociali come il CSOA La Strada, La Pirateria di Porta, Acrobax e tutti gli altri”. Il rapporto dei centri sociali romani con le istituzioni fu però anche fonte di accesi dibattiti che coinvolsero le realtà esterne alla capitale: in gioco c’era in parte anche l’identità antagonista di questi spazi. Insito, infatti, nella dna dei centri sociali in Italia, sin dai primissimi anni della loro formazione, è il fatto di presentarsi come una galassia composita che, partendo dai capisaldi comuni, si è differenziata, intraprendendo strade diverse a seconda dei contesti urbani di riferimento.
Il Rap è quello che fai, l’Hip Hop è quello che vivi
Tra gli anni ’80 e ’90 è sbarcato in Italia l’Hip Hop, basato sulle 4 arti: Writing, Djing, Breakdance e Rap. L’Hip Hop è cultura e tradizione tramandata dalla “black esperience”, fatta di messaggi positivi e denuncia sociale. In Italia questa musica avanguardistica e sentita come propria è stata captata e ha trovato subito un luogo per rifugiarsi nei centri sociali autogestiti tramite le Posse. A Milano c’erano i Lion Horse Posse, a Roma al Forte Prenestino grazie alla Radio Onda Rossa nacquero gli Onda Rossa Posse e a Bologna all’Isola Kantiere gli Isola All Stars Posse. Nel ’90 a Roma “Batti il tempo” è il primo vinile di una canzone rap in Italia. Infatti, in questo momento c’è una profonda mescolanza di musica e politica che creerà un connubio e matrimonio fortissimo. La componente di critica sociale è intrinseca al genere come “qualcosa di sinistra” come dice Ice One, in quanto è una delle forme espressive più legate al dissenso, è una musica dal basso o di contestazione, tanto da diventare colonna sonora di manifestazioni. Avendo un rapporto stretto con i centri sociali, in un certo senso inizia a delinearsi un paradigma o tipologia di testo fortemente politicizzato, ma è comunque un movimento nuovo e spontaneo che cresce, utilizzando sonorità reggae e hardcore, nonché i generi che venivano ospitati negli stessi spazi.
Durante le occupazioni delle varie facoltà fiorirono anche forme di espressione artistica come momento di cultura alternativa, tra questi episodi è memorabile il corteo circense. Le occupazioni erano in quel momento in una fase avanzata ed iniziava ad essere passato un po’ di tempo dall’inizio della protesta, oggetto di una forte pressione mediatica. Importanti testate giornalistiche nazionali si erano esposte denigrando i ragazzi della Pantera. I protestanti si trovarono nel polverone delle false accuse e della disinformazione. Il corteo circense, organizzato dal PIC, Pronto Intervento Culturale, fu una risposta gioiosa e colorata alla provocazione mediatica ma anche una espressione artistica fortemente corporea che utilizzò un metodo di comunicazione alternativa contro una politica ormai logora. Per irridere le “ondose” parole di alcuni giornalisti, Cesario Olivia realizzò barchette di carta proprio con quei giornali, riempendo con queste la vasca della fontana sotto la Minerva che, solitamente, era sempre vuota. Altri studenti quel giorno si travestirono da corvi neri ed entrarono, gracchiando, nelle classi delle facoltà non occupate, interrompendo le lezioni per annunciare il corteo. All’interno delle facoltà occupate fiorirono anche Laboratori teatrali. Dentro la Sapienza di Roma sorse un gruppo teatrale organizzato da Nino Racco, il quale all’epoca lavorava a cappello nelle piazze romane come cantastorie e attore. Nino dirigeva il gruppo formato soprattutto da studenti di lettere e antropologia, dandogli il nome di “Novanta Teatro Movimento”. Per la formazione del corpo dell’attore leggevano “Terzo Teatro” di Barba e “Teatro povero” di Grotowski. Dalla direzione di Nino approdarono poi al teatro musicale. Terminata l’occupazione,gli studenti per un periodo si trasferirono in un casale di pietra nei Boschi del monte Peglia, senza acqua corrente o elettricità. Vissero lì conducendo una vita comunitaria per qualche anno, per poi tornare a Roma. Alcuni di loro divennero artisti di strada come Daniele Mutini, che continua ad esibirsi nelle piazze, altri si rifugiarono nel Rap. La produzione di cultura della Pantera, attraverso video, scrittura disegni è un fatto nuovo e significativo. Tutto il lavoro fatto sulla comunicazione e il linguaggio diventa non una espressione “organica”di contenuti politici tradotti in altre forme, ma proprio un prodotto indipendente creativo antagonista che esprime in sé l’anima del movimento.Le vignette create dagli esponenti del gruppo Graforibelli, giovanissimi studenti che, con i loro disegni, stampati a bassa risoluzione dalle vecchie macchine di fax, tappezzarono i muri della Capitale, rappresentano una delle tante manifestazioni della componente artistica del movimento.