Travolti da un insolito flop nel salato deserto di Hollywood

Cinema in ginocchio in era post-Covid, ma la risposta di Hollywood è contraddittoria: i kolossal aggravano, più grande non è meglio.

08/02/2023

flòp〉 s. ingl. (propr. «tonfo»; pl. flopsflòps〉), usato in ital. al masch. – Nel linguaggio giornalistico, insuccesso, fiasco, riferito inizialmente a uno spettacolo, poi esteso a indicare fallimenti anche in altri settori di attività: tentativo risoltosi in un flop; rischiare un flop; quel film è stato un flop al botteghino.

All’inizio del 2022, più o meno in questo stesso periodo, prendemmo a esempio due grandi uscite cinematografiche della stagione (Scream 5 e Matrix: Resurrection) per analizzare la deriva del cinema hollywoodiano verso una bolla di sequel e franchise sempre meno valida artisticamente. Lì si parlava di contenuto, stavolta si parla di numeri. Hollywood vive una crisi sempre più evidente in cui si intersecano vari fattori e il vile denaro, analizzato nel rapporto differenziale tra costi e guadagni, fra budget e incassi, è uno dei più importanti. Nell’organismo cinema, il box-office è come un linfonodo, un campanello d’allarme per individuare sintomatologie di una crisi e attivare gli anticorpi. 

Ma in questo organismo, già fortemente debilitato dalla moria delle sale, qualcosa si è inceppato: la risposta delle produzioni, gli anticorpi su cui stanno facendo affidamento, non sono solo inadeguati, ma stanno aggravando la malattia. E infatti i grandi casi studio di questo inizio 2023 sono, purtroppo, due (più uno) flop al botteghino. Il primo, il più uno, è un film di supereroi: Black Adam di DC Films, intorno al quale il suo protagonista (e produttore) Dwayne Johnson ha costruito una gigantesca narrazione di successo commerciale. A box-office chiuso, il conteggio era di quasi 400 milioni incassati (387 per l’esattezza): ottimo, direte, siamo sempre nell’ordine del mezzo miliardo. E invece no, perché incasso e guadagno sono cose diverse e la forbice, a Hollywood, si sta allargando sempre di più. Perché i film costano troppo. E perché Black Adam, potete crederci, è considerato un flop dalla Warner Bros., che dovrà sopperire a una perdita stimata fra i 50 e i 100 milioni di dollari.

A preoccupare ulteriormente però, l’assenza apparente di un’alternativa d’autore che non ricada negli stessi errori di calcolo dei blockbuster, come banalmente fu la New Hollywood all’indomani del crack del ‘63 dovuto ai grandi peplum. Lo dimostrano i fallimenti (entrambi recentissimi, fra loro identici in modo inquietante) di Amsterdam di David O. Russell e Babylon di Damien Chazelle. Cast stellare come punto di forza di entrambi e budget stimati in 80 milioni di dollari (per Babylon, altre stime arrivano fino a 109 milioni). E un incasso al primo weekend rispettivamente di 6,4 e 5,3 milioni. Un disastro. Ma quali le cause? E quali le opzioni di risparmio effettivamente sul tavolo, fintantoché non si trovi un modo praticabile per risollevare il numero di biglietti staccati? Dove agire o dove puntellare, in un modello produttivo ormai insostenibile, ogni anno di più?

Indagine su una Hollywood al di sopra di ogni risparmio

Nonostante l’uso crescente di computer grafica ed effetti visivi nei moderni blockbuster, la gran parte degli studios non possiede di suo questo genere di reparti. Il che li costringe ad appaltare il lavoro a case specializzate, che si sono ritrovate a gestire carichi eccessivi alla ripartenza post-pandemica. Un esempio eclatante è il film Marvel Thor: Love & Thunder, che ha affidato a ben 13 aziende diverse la creazione dei VFX. Ma non è solo l’appalto a pesare sui costi di questo intero apparato creato ex novo: diciamo ex novo perché, banalmente, le produzioni tradizionali non ne avevamo mai avuto bisogno. Una recente inchiesta di Vulture accusa la Marvel, attraverso numerose testimonianze di artisti VFX, di avere un approccio con i propri impiegati controverso e tossico, che ha portato molti professionisti a riconsiderare il proprio legame lavorativo con l’azienda.

La scelta della Marvel, come di tante altre major, è di lasciare gran parte della costruzione visiva alla post-produzione, risparmiando così sulla ricostruzione dei set e degli ambienti, sostituiti dal solo green screen. Ma da che avrebbe dovuto abbattere i costi (solo apparentemente poi), questa strategia si è trasformata in una vera e propria “assicurazione di ripensamento”. Con il solo attore come elemento fisso dell’inquadratura e il green screen che offre invece migliaia di possibilità (e di revisioni in secondo tempo), le ambientazioni in CGI possono essere create e disfatte anche a poche settimane dall’uscita, il che non può avvenire per materiale di ripresa con fondali fisici. Questo succede più spesso di quanto si pensi, perché molti di questi progetti vengono avviati in fretta e furia e hanno quindi bisogno di essere ridefiniti in corsa.

Sperperi: i costi della fretta

Il perché di questa fretta è adducibile a un periodo di sovraffollamento produttivo. La Marvel, nella sua Phase 3, ha collezionato 11 film tra il 2016 e il 2019, mentre la Phase 4 ha spinto le produzioni a un totale di 7 film e 8 serie in soli due anni, dal 2021 al 2022. Una produzione così tentacolare, che altre major sono costrette a emulare per restare al passo, sta mettendo sempre più sotto pressione i produttori esecutivi. Alcuni si trovano a seguire troppi progetti in contemporanea eclatante il caso di Nate Moore in Marvel in una continuity interconnessa molto stringente ma poco chiarita a monte. Questo li costringe a ramificare il comparto produttivo, con conseguente dispendio in risorse umane e con decine di assistenti che si vedono delegare da un “capo” che è sempre al lavoro su qualcos’altro, è sempre in un ufficio diverso.

Ma la conseguenza, in fase di riprese, è un abuso di green screen per avere più tempo, poi, di chiarirsi le idee in un secondo momento. Gli artisti VFX raccontano a Vulture di essersi trovati a dover costruire una scena da zero, senza una guida, costretti poi a cambiare il lavoro in corso d’opera a causa delle numerose riscritture, e con tempi strettissimi. Quindi, non solo l’appalto esterno è più costoso di un reparto interno, ma presta il fianco a infinite riscritture e revisioni, annullando il risparmio. I costi che si sono abbattuti in allestimenti si ritrovano, maggiorati, in post-produzioni babilonesi rese Fabbriche di San Pietro. Non si sta dicendo che i VFX siano di per sé una spesa maggiore, né si sta facendo un paragone con metodi di produzione tradizionali. Ma ciò che, di tradizionale in questo settore, stanno veramente cambiando, è l’equilibrio stesso e il peso specifico delle tre fasi che storicamente costituiscono la lavorazione di un film: ciò che doveva essere definitivo in pre-produzione, viene procrastinato con due fasi di ritardo, in post. Oltre ai problemi a catena che questo provoca, rimane anche la questione del rispetto dei lavoratori, che nonostante tutto sono pagati comunque ai minimi storici. Un singolo tecnico VFX in Marvel, il 20% in meno rispetto a tutte le altre aziende e per svolgere un lavoro diviso per tre in tutte le altre aziende, sempre secondo le statistiche di Vulture.

Sperperi: i costi del marketing

Ma i VFX non sono l’unica causa della lievitazione dei costi. Per un film come Black Adam budget di partenza di 190 milioni, arrivato a 260 a causa di revisioni e riprese aggiuntive se ne stimano almeno altri 100 unicamente di P&A: riletto, marketing. Conteggiate esternamente ai budget di produzione e senza una reale chiarezza nella contabilizzazione, queste spese diventano sempre più onerose e incontrollate. La primavera del 2022, ad esempio, ha combaciato con una finestra d’uscita per molti blockbuster in competizione tra loro, come i sequel Jurassic Park: Dominion (Universal), Top Gun: Maverick (Paramount) e Doctor Strange in The Multiverse of Madness (Marvel). Con un calendario così affollato, il marketing si rende fondamentale per le major. Troppo fondamentale. Investire sulla comunicazione è stato e rimane necessario, non solo per farsi spazio tra i tanti titoli in uscita, ma soprattutto, come dice Paul Dergarabedian, analista di Adds Comscore, per riportare l’attenzione del grande schermo su una popolazione che aveva perso di vista la sala nel pieno della pandemia. Ma tali strategie, proporzionate ai budget di produzione, si fanno sempre più costose.

Sperperi: i costi delle star

Le spese di marketing, però, non si fermano solo a scelte distributive o di promozione a film chiuso. Una tendenza che risiede da sempre nel DNA hollywoodiano è quella di affidarsi ad attori A-Talent, capaci di attirare l’attenzione su di loro e sui film in cui compaiono. Esempio eclatante di cast all star cioè con attori di punta anche in ruoli di comparsate è stato di recente proprio Amsterdam. Il budget a film chiuso è stato calcolato in 80 milioni, ma 30 se ne sono aggiunti in ritardi sui 50 stanziati inizialmente. Basiamoci dunque su questo secondo dato per calcolare la percentuale andata al cast. Della quindicina di nomi A-Talent si conoscono i cachet dei tre protagonisti: Christian Bale (10 milioni), Margot Robbie (5 milioni) e John David Washington (800 mila). Poi un secondo gruppo di comprimari: Chris Rock (700 mila), Anya Taylor-Joy (450 mila), Zoe Saldana (400 mila), Mike Myers (300 mila), Michael Shannon (300 mila). Per alcuni parliamo di ruoli presenti meno di 10 minuti su 134 di minutaggio. A questo si aggiunge un terzo gruppo di cifre sconosciute per i restanti A-Talent come Nivola, Olyphant, Riseborough, Schoenaerts (non meno di 100 mila a testa) e di personaggi di primo piano sia per fama che per minutaggio come Rami Malek, Robert DeNiro e Taylor Swift (per cui le cifre sono sconosciute, ma orbitano probabilmente intorno a quelle del secondo gruppo). Quindi, i totali noti sfiorano i 18 milioni in cast principale, cioè il 36% del budget iniziale di 50 milioni; con le cifre sconosciute si superano tranquillamente i 20 milioni (40%). Per riassumere: 20 milioni in cast, 30 milioni solo in ritardi e spese aggiuntive, altri 30 milioni per tutto il resto del film. Se a questi 80 totali poi, ne sommiamo altrettanti di P&A, ci ritroviamo con un film che in sala avrebbe dovuto guadagnare 320 milioni solo per andare in pari, perché ai cinema spetta metà del costo del biglietto. E a proiezioni chiuse, ha guadagnato un totale globale di 31 milioni appena.

Avere spese di cachet così elevate significa scommettere sulla capacità del cast di restituire l’investimento, e anzi trasformarlo in profitto. Persino in questi casi, i P&A possono finire conteggiati a parte: oltre ai 22 milioni di cachet per Black Adam, Dwayne Johnson avrebbe ricevuto una cifra sconosciuta per la promozione martellante sui suoi canali social personali. C’è poi il caso di Margot Robbie, considerata un sicuro biglietto da visita per film come Babylon e Amsterdam e ora retrocessa da molti analisti dei box-office alla luce dei risultati, smentendo la logica che l’investimento sugli A-Talent sia una sicurezza al botteghino. In alcuni casi queste scelte si sono dimostrate addirittura dei clamorosi autogol, come la comparsa da 7 milioni di Lena Hadey in Thor: Love & Thunder, che è stata poi eliminata dal montaggio finale. Agli studios, dunque, producendo più di quanto possano sperare di guadagnare, non resta che scommettere sulla buona, anzi ottima riuscita dei loro grandi eventi cinematografici: l’unica in grado di far dimenticare spese scellerate e idee confuse, ma ormai sempre più spesso una vittoria di misura, quando c’è.

Per qualche dollaro in meno

 

Se è vero che molte case di produzione considerate “moderne” sono in realtà bloccate, sotto tanti aspetti, a dinamiche produttive e distributive dello scorso secolo, pure non mancano casi nobili che stanno cercando di affrontare il nuovo: non subendolo, ma cavalcandolo. Le alternative più originali ce le offre il panorama indipendente o semi-indipendente. In questo spicca sicuramente la società newyorkese A24 che sì, è chiamata così perché il co-fondatore Daniel Katz ebbe «un momento di lucidità» sull’autostrada Roma-Teramo. Assurta alla notorietà grazie a Spring Breakers e specializzatasi nella produzione e distribuzione di film indie, prevalentemente horror (da Robert Eggers ad Ari Aster), per qualche motivo è diventata sinonimo di ritorno economico. 

 

Ma in che modo A24 prospera lì dove altri produttori e distributori arrancano? Innanzitutto, concentrandosi appunto sul cinema indie, che naturalmente si traduce in film con un pubblico di riferimento potenziale ben definito e dalle ridotte dimensioni sotto il profilo di capitali investiti. Per fare alcuni esempi: Everything Everywhere All At Once (budget 25 milioni contro 104 d’incassi, i più alti di sempre per A24); Midsommar (9 milioni contro 47); The VVitch (3,5 milioni contro 40); infine X: A Sexy Horror Story (1 milione contro 13,3). In media, A24 investe all’incirca 8 milioni a produzione, molto distanti da quella di 74 milioni della Warner Bros. Questo dato si traduce in un minore e meglio distribuito rischio per la società: un conto è recuperare una perdita di 1 milione di dollari, altro conto è recuperarne 300 milioni, persino se ti chiami Warner Bros. Tanto l’obiettivo sembra lo stesso: creare dei franchise, sia per le major che (alle volte, insospettabilmente) per l’indie. Ma Black Adam, che prometteva di aprire una nuova era del DC Universe alla modica cifra di oltre 350 milioni, non è andato neanche in pari e si è visto cancellati i sequel. Mentre X: A Sexy Horror Story ha aperto una trilogia girata quasi consecutivamente i primi due film insieme, in un breve lasso di tempo, stesso set, cast e location e che finora ha incassato quasi 20 milioni di dollari.

 

La risposta è Tinder Gold

 

In secondo luogo, A24 ha puntato, fin dai suoi esordi, a sfruttare al massimo le vere potenzialità dei mass media contemporanei, in grado di affossare o promuovere il buon esito di un investimento cinematografico. Questo prima ancora che lo stesso esca nelle sale di tutto il mondo, visto che ormai il weekend di debutto cioè quello che non si basa sul passaparola degli spettatori, ma solo sul precedente marketing raccoglie spesso metà dell’incasso complessivo. In poche parole: usando i social media. Lì dove i suoi concorrenti puntano su elefantiache e onerose campagne promozionali tradizionali – e non avendo le risorse per eguagliarle A24 ha fatto fin da subito affidamento su campagne di viral marketing innovative. Ne è un esempio l’idea di promuovere Ex Machina (2015) creando appositamente un profilo Tinder al personaggio dell’androide Ava (Alicia Vikander). Il film è costato circa 13 milioni di dollari e ne ha incassati in tutto il mondo quasi 40. A dimostrazione della validità dell’iniziativa, le campagne marketing basate sui social media diverse dalle semplici pubblicità sponsorizzate in cui ci imbattiamo costantemente si sono moltiplicate anche nelle grandi produzioni. Esempio eclatante è quello messo in piedi per Deadpool (2016): solo il protagonista Ryan Reynolds e un team di supporto a gestire vari profili social (fra cui sempre Tinder) ricalcati sul personaggio di Wade Wilson. Con un budget produttivo di “soli” 58 milioni di dollari, ne ha fatti incassare quasi 800 milioni alla 20th Century Fox (ormai sussidiaria Disney dal 2021). 

 

La risposta è Video Wall

 

Così come non di solo pane può vivere l’uomo, anche una casa di produzione non può vivere di solo marketing. Anche le spese per la creazione di CGI e VFX, come abbiamo visto, possono incidere negativamente sul costo finale di una pellicola. Una possibile risposta a questo problema, gli studios l’hanno trovata con la tecnologia del video wall. Dove in precedenza il prodotto finito veniva ottenuto (e viene tutt’ora, in gran parte delle filiere) principalmente nella fase di post-produzione, modificando l’onnipresente green screen a seconda delle esigenze, il video wall assembla tutti gli elementi non presenti sul set già durante le riprese del film stesso. Questo grazie a una stanza cilindrica tappezzata di schermi LED sulle pareti e proiettori su soffitti e pavimenti. Qui, uno scenario simulato e precedentemente renderizzato viene proiettato seguendo in sincrono i movimenti della telecamera. Strutture di questo tipo hanno ovviamente costi di costruzione inavvicinabili, ma gran parte di questi è sostenuta da aziende terze che poi affittano la tecnologia alle major. La più nota e la prima del suo genere usata in modo massivo, The Volume, ha prodotto il 100% delle ambientazioni in esterna della serie The Mandalorian. Non solo però paesaggi di profondità, ma persino ristretti set chiusi, talmente realistici da impedire allo spettatore di riconoscere la differenza con un fondale fisico. Sempre per The Mandalorian: delle riprese in interna, allestimenti che si credevano fisici nella loro totalità erano invece per il 50% proiezioni su video wall. Questo metterebbe d’accordo tutti, autori e registi blockbuster, fanatici dei set fisici e pigri sostenitori della CGI. I primi, li solleva dai costi di spostamenti fra location in esterna e allestimento di set in interna; i secondi, li costringe ad anticipare a prima delle riprese (e definire una volta per tutte) proprio quei rendering digitali causa di sperperi e ripensamenti in post-produzione. La sintesi perfetta ed emblematica? Un film come The Batman di Matt Reeves, a metà fra cinecomic e noir d’autore, miglior incasso del 2022 al momento dell’uscita, gran parte dei ciak in video wall: avreste detto la differenza?

 

La risposta non è cast ‘em all

 

Sul problema dei cast, mancano effettivamente valide alternative a causa dell’attuale sistema narrativo. Questo perché la serializzazione del grande schermo tradotto, l’onnipresenza dei franchise continuativi costringe le major a legare gli attori a uno stesso ruolo per più film, così da non doverli recastare in caso di altri ingaggi. Nomi come Chris Evans per Captain America e Robert Downey Jr. per Iron Man non vengono chiamati di film in film, ma ingaggiati tramite contratti vincolati e opzionati per 5 o 6 pellicole in un arco di dieci anni. Un po’ come per i calciatori, contratti di questo tipo hanno ovviamente costi rialzati per sopperire alle perdite dell’attore al momento di altri rifiuti. È vero, contratti di esclusiva per grandi major non sono cosa nuova ed erano anzi pratica già diffusa nella Golden Age: esattamente, la stessa Hollywood che è fallita all’inizio degli Anni ‘60. Un’alternativa più una provocazione in realtà, che prende atto del confine ormai labile fra attore e strumento di marketing potrebbe essere aumentare quella percentuale dei cachet che si basa sui bonus a seconda dell’incasso. In altre parole, se è ai cast che si guarda per la buona riuscita di un film, ché anche i loro cachet siano determinati da quella buona riuscita. Caso eclatante Matt Damon, prima scelta come protagonista di Avatar (2009) al posto di Sam Worthington (meno conosciuto), cui venne promesso un contratto sul botteghino con opzione al 10% sugli incassi del film. Se avesse accettato, avrebbe ottenuto senza colpo ferire un patrimonio di quasi 300 milioni di dollari: rimane tutt’oggi la più grande perdita economica a fronte di un rifiuto d’ingaggio. Questo per quanto riguarda i blockbuster, per il cinema d’autore invece abbandonare sicuramente i cast all star, reinvestendo su nuovi esordienti ma soprattutto ridando fiducia al concetto intermedio dei caratteristi, perfetti comprimari ad alta riconoscibilità ma a bassi cachet. E infine, tagliare sui costi d’ingaggio ormai fissi per alcuni A-Talent: non è il regista a dover voler lavorare con un attore, semmai il contrario. Come Leonardo DiCaprio, che secondo un rapporto di Variety si decurtò per metà il suo classico stipendio a 20 milioni per permettere a Quentin Tarantino di ingaggiarlo in C’era una volta… a Hollywood.

Il passaggio dalla manifattura all’industria, l’abbandono di modelli solo parzialmente meccanizzati e che ancora si vorrebbero “artigianali”, è insomma un fatto che prima o poi finisce per riguardare qualunque settore. Per le arti intese in senso estetico, questo sembra più difficile da accettare, anche se il cinema è principalmente industria e non più manifattura di bottega già da diversi decenni a questa parte. Per non prenderne atto, potremmo ritrovarci in men che non si dica a dover rivedere il titolo di Tarantino, semplicemente, in C’era una volta Hollywood. Oppure, applicare anche al cinema ciò che il passaggio da una manifattura a un’industria significa o dovrebbe significare, soprattutto in momenti di crisi: la razionalizzazione del lavoro, delle risorse e delle materie prime. In questo l’industria cinematografica, che è creatrice di mondi ma fa comunque parte del nostro, non fa  eccezione a questa regola.

Articolo di di Carlo Giuliano, Emanuele Tresca, Massimo Cecchini