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Sulle trivelle vince sempre chi estrae
L’approvazione del piano per la transizione “ecologica” delle trivellazioni in mare è stata ancora rimandata. E grandi operatori come Global Med continuano ad agire indisturbati
In Italia la regolamentazione per trivellazioni e ricerca di idrocarburi è a dir poco frammentaria. Infatti, non esiste un piano che individui le aree in cui si possono intraprendere attività legate all’estrazione degli idrocarburi e le poche regole esistenti sono sparse in un gran numero di atti normativi. Questa debolezza permette una crescente invasività di tali attività, che possono essere condotte un po’ ovunque, con conseguenti criticità ambientali. In questo contesto, il tentativo di elaborare un piano strategico per lo sfruttamento degli idrocarburi è una ventata di aria fresca. Il PiTESAI (Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee) è stato ideato proprio con l’intento di regolare lo sfruttamento “sostenibile” delle «attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sul territorio nazionale». Un’innovazione giuridica significativa, sulla cui realizzazione ci sono però moltissimi dubbi.
Un’approvazione impossibile
Dopo aver visto brevemente la luce in un emendamento (mai approvato) al decreto Sblocca Italia del 2014, il PiTESAI viene ufficialmente inserito nel decreto Semplificazioni, convertito in legge nel febbraio 2019. L’articolo 11-ter prevede infatti la redazione del piano entro 18 mesi e lo affianca a un blocco temporaneo della concessione di nuovi permessi di ricerca e coltivazione, nonché di qualunque attività di ricerca. La moratoria però non prevede l’interruzione delle coltivazioni in atto, né impedisce le proroghe dei permessi che di fatto, e assurdamente, vengono concesse automaticamente alla scadenza del titolo.
Nonostante il ‒ così giudicato dall’ex Ministro dello Sviluppo Economico Patuanelli in una risposta ad un’interrogazione parlamentare ‒ «tempestivo avviamento delle attività inerenti alla redazione e adozione del PiTESAI» si è reso necessario emendare la legge del 2019 per estendere il termine della pubblicazione, spostato al 13 febbraio 2021. Il mancato rispetto anche della seconda data di scadenza (poco sorprendente se si guarda al fatto che in due anni non è stato reso pubblico alcun elaborato, neppure sotto forma di bozza, che facesse pensare che la stesura del Piano stesse procedendo) ha portato ad un’ulteriore estensione del termine che è stato infine spostato, insieme alla data termine della moratoria, al 30 settembre 2021.
Nel caso in cui si dovesse arrivare al 30 settembre con un Piano approvato scatterebbero, entro 60 giorni dalla pubblicazione del PiTESAI, le revoche dei permessi attivi riguardanti aree giudicate non idonee da un punto di vista ambientale. Verrebbero inoltre rigettate tutte le domande per permessi in zone non compatibili con la ricerca o la coltivazione. Se invece il Piano non venisse approvato in tempo si perverrebbe a un nulla di fatto: tutti i permessi tornerebbero attivi automaticamente e riprenderebbero i processi di concessione e proroga degli stessi.
Se mai dovesse essere realizzato, il PiTESAI avrebbe un iter di approvazione a dir poco articolato. In primis il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare dovrà realizzare una VAS (Valutazione Ambientale Strategica) del Piano su richiesta del Ministero dello Sviluppo Economico (MiSE) per individuare le aree idonee alle attività di sfruttamento degli idrocarburi. Il 15 febbraio 2021, data entro la quale il piano sarebbe dovuto già essere approvato, è stato pubblicato il rapporto preliminare necessario per dare il via alla VAS. Insomma, nei sei mesi che ci separano dalla scadenza dell’ennesima proroga dovrebbero essere intrapresi tutti quei passi che si prevedeva richiedessero all’incirca due anni.
Non solo, anche la Conferenza Unificata di Stato e Regioni dovrà intervenire alla valutazione del PiTESAI prima di un’eventuale approvazione. Il coinvolgimento delle regioni quasi certamente allungherà di molto la discussione del Piano, per gli immancabili scontri politici che emergeranno tra Stato e giunte regionali. Inoltre, l’inclusione di alcuni territori come aree idonee sicuramente causerà malcontento nell’elettorato locale, mettendo così sotto pressione le amministrazioni regionali.
La complessità del procedimento per l’approvazione del PiTESAI e il ritardo già accumulato nella realizzazione della VAS pongono seriamente in dubbio la possibilità che il Piano venga approvato senza ulteriori proroghe. Un tale esito sarebbe estremamente problematico visto l’incombente termine del blocco ai permessi di ricerca e prospezione. È quindi realistica la possibilità che si permetta alle attività di ricerca di ricominciare anche senza l’approvazione del PiTESAI. Questa opzione sembra la più plausibile dato che le attività di estrazione sono tuttora esenti dal blocco e che l’ex ministro Patuanelli sembrava aver suggerito che la Sicilia fosse completamente esente da ogni blocco. Inoltre, un emendamento al Milleproroghe presentato dalla Lega, poi non approvato, già chiedeva di sbloccare immediatamente i permessi di ricerca e prospezione.
Le criticità di un progetto come il PiTESAI sono molteplici. Prima di tutto il Piano non prevede un blocco totale alle attività estrattive e di ricerca legate ai giacimenti di idrocarburi, in contrasto con la necessità di azzerare le emissioni di gas climalteranti entro il 2050. Inoltre, sembra improbabile un’approvazione del Piano entro i termini previsti. Infine, se anche il piano venisse approvato, rimangono diverse incoerenze nel corpo di norme che regola le attività estrattive. Il cofondatore del Coordinamento Nazionale No Triv, Enzo di Salvatore, riassume impietosamente la situazione di incertezza: «Bene sospendere [le nuove concessioni, ndr] perché occorre che la politica si attivi. Certo in due anni non è stato fatto nulla, ma la speranza è che in qualche modo si faccia».
Vuoti legislativi: il caso Global Med
Le leggi relative alle trivelle, insomma, hanno il difetto di essere approssimative e lasciare molti vuoti legislativi, denunciati da varie organizzazioni e ancora irrisolti. Emblema delle problematiche relative all’assegnazione e gestione dei permessi di ricerca e delle concessioni è il controverso caso della società Global Med LLC. La Global Med è una società americana, parte del Gruppo Global, che appartiene interamente a Randall C. Thompson, di cui però si hanno pochissime informazioni. La Global Med, come dichiarato dal deputato Nicola Fratoianni durante un’interrogazione parlamentare nel 2014, è «un’appendice della Global Group, società americana» riconducibile «alla potenza mineraria inglese Bhp Billiton», responsabile del più grande disastro ambientale nella storia del Brasile: il crollo di un bacino di fanghi minerari tossici nel villaggio di Bento Rodrigues nel 2015. Non il migliore biglietto da visita. Come descritto nel certificato di proprietà per il Ministero dell’Ambiente, «la strategia esplorativa di Global consiste nel concentrarsi su un Paese alla volta», e da qualche anno ha puntato sull’Italia. Più precisamente, nel Mar Jonio troviamo i procedimenti F.R41-42-43-44-45.GM per permessi di ricerca di idrocarburi. Le autorizzazioni alla Global Med nel mare che bagna Puglia e Calabria sono state oggetto di critica da molti enti per svariati motivi, dall’ambito ambientale a quello legale.
Tra gli impegni della società, figura l’obiettivo di «non danneggiare le persone, la fauna, i pesci o le creature marine». Sono però proprio tali rischi che diverse associazioni ambientali hanno messo in luce. Legambiente nel 2014 ha denunciato il danno che il sistema di ricerca air gun (ovvero attraverso indagini sismiche) utilizzato dalla Global avrebbe provocato all’ecosistema marino se i permessi di ricerca (poi partiti comunque nel 2016) fossero stati approvati. Il rischio aumenterebbe, anche secondo il WWF, per la presenza di ordigni bellici, tra cui bombe NATO all’uranio impoverito, in diverse aree dei permessi di ricerca della Global Med nello Jonio. Anche il Comitato Mediterraneo No Triv si è schierato contro i permessi di ricerca per la Global Med, evidenziando che lo Studio di Impatto ambientale manca di indagini accurate sull’effetto che l’air gun potrebbe avere sui «rifiuti radioattivi e/o tossici». La presenza di queste sostanze è infatti «incompatibile con qualsiasi attività di ricerca di idrocarburi». Secondo l’associazione Peace Link non ne valeva la pena: la «quantità irrisoria e di scarsa qualità» degli idrocarburi non compensa il forte impatto ambientale della ricerca.
Nessuno di questi pareri è stato ascoltato dallo Stato. E quando nel 2015 è stata approvata la legge 68 che definiva gli ecoreati, l’utilizzo dell’air gun non appariva tra essi. Dietro nessuna svista ingenua, anzi una scelta consapevole. Inizialmente nella proposta di legge della 68, infatti, la tecnica figurava come reato punibile con «reclusione da uno a tre anni» proprio per la sua pericolosità. Come ha dichiarato il deputato Nicola Fratoianni, la norma «è stata opportunamente “sfilata” in una notte di pressioni da parte dei produttori di oil&gas sul Ministero dell’Ambiente guidato dall’allora ministro Galletti. Pressioni che continuano quotidianamente anche in questi giorni».
La legge fantasma
Insieme al problema ambientale, tra le criticità presenti nei permessi di ricerca concessi alla Global Med è evidente l’assoluta contraddittorietà tra l’area complessiva coperta dai procedimenti F.R41-42-43-44-45.GM e quanto previsto dalla legge 9/91. Questa consente al titolare del permesso un’area con un limite di 750 km² per garantire il razionale sviluppo del programma di ricerca e il rispetto della libera concorrenza, secondo quanto previsto dalla direttiva UE 94/22. In tutta risposta, la società Global Med è riuscita ad eludere la legge, chiedendo e ottenendo permessi di ricerca contigui. In questo modo l’area sottesa a ogni permesso è di per sé legittima, aggirandosi attorno ai 748 km², ma la somma dei permessi attaccati (che crea un “maxi-permesso” dato dalla loro unione) supera di gran lunga il limite previsto. La norma del massimo di 750 km² è risultata quindi poco credibile e il precedente creato dalla Global Med ha portato alla concessione da parte dello Stato di circostanze simili anche per altre società, creando un oligopolio. Inoltre bisogna considerare il fattore temporale rappresentato dalle proroghe poiché, a seguito del fallimentare referendum italiano del 2016, la durata delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in mare ─ entro 12 miglia nautiche dalla costa ─ è rimasta estesa sino all’esaurimento della vita utile dei rispettivi giacimenti. Ciò assicura alle grandi compagnie l’esclusiva per continuare ad estrarre fino all’ultima goccia di petrolio nell’area loro affidata, violando il principio della libera concorrenza. Quest’ultima dovrebbe essere garantita proprio dalla direttiva 94/22, che disciplina il rilascio di titoli minerari con un’estensione ampia tanto quanto serva allo sfruttamento razionale delle risorse minerarie, ma non per sfruttare al meglio un giacimento esistente. Nel 2017 si sono opposte a tale situazione la Puglia e la Calabria, affacciate sulla cosiddetta «zona marina F» ─ dove ricadono tutte le autorizzazioni presenti nello Jonio. L’ex presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, ha fatto ricorso al Tar del Lazio per far sospendere le concessioni, ma senza ottenere risultati. Anche l’europarlamentare Barbara Spinelli e il professor Di Salvatore hanno tentato di aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia, ricevendo però un rifiuto dalla Commissione Europea.
Voci senza eco
Oltre alle associazioni ambientali ci sono molte altre realtà che hanno espresso posizioni contrarie riguardo alle concessioni date alla Global Med: cittadini, comuni, province e regioni. Per quanto riguarda i privati cittadini attualmente è prevista la possibilità di inviare le osservazioni sulle valutazioni ambientali entro sessanta giorni dalla data di pubblicazione. Tuttavia, come fa notare Di Salvatore, l’opinione che i cittadini possono dare «non è un’opinione di merito o di opportunità politica. […] Non è questo il ragionamento, viene utilizzato in questo modo ma non è questa la ratio». E spiega che in realtà «lo spirito della legge che prevede questa partecipazione è migliorare, non opporre qualcosa, non avversare il progetto». Per quanto riguarda i comuni possono anch’essi esprimersi circa i procedimenti di VAS ma, come spiega ancora Di Salvatore, «purtroppo la legge è stata modificata: fino al 2009 i comuni avevano diritto, in quanto collettività locali, di partecipare ai procedimenti. Oggi questo diritto non c’è più, è stato cancellato. I comuni hanno diritto a lasciare un parere solo quando si tratta di un’autorizzazione per la costruzione di un pozzo esplorativo». Quindi i pareri dei comuni non sono politicamente vincolanti, con il rischio che i territori in questione non siano ascoltati.
Cosa diversa è, invece, almeno in teoria, il parere delle regioni: infatti, a livello costituzionale l’energia è di competenza sia dello Stato che delle regioni. L’intervento delle regioni, che Di Salvatore pensa debba essere inteso come un intervento politico e non puramente tecnico, è stato molto sentito nel caso delle concessioni date a Global Med. Riguardo ai permessi di ricerca F.R 44.GM e F.R 45.GM, nel 2015 il Comitato regionale della Regione Puglia aveva espresso parere sfavorevole all’intervento, rilevando diverse problematiche. Tra le tante figurava la concomitanza delle aree di ricerca e la dichiarazione di Global Med «di non essere soggetto ad una valutazione cumulativa degli effetti» causati dall’insieme delle aree di ricerca contigue, in quanto considerata «non inerente alla fase di ricerca». Oltre a questo la regione sollevava questioni di tipo ambientale, come la superficialità della valutazione di Global Med sull’importanza ecologica delle aree interessate. Le questioni ambientali sono al centro di tanti altri pareri negativi pubblicati dalle realtà locali in merito a queste ed altre concessioni della Global Med nel Mar Jonio. Come l’Assemblea dei Sindaci della Provincia di Lecce nel dicembre 2014, infatti, molti enti hanno manifestato la propria contrarietà allo svolgimento delle attività di ricerca in mare di idrocarburi. La loro voce non è stata ascoltata nonostante il forte coinvolgimento nella questione e le concessioni, tuttora attive, sono comunque state accordate alla società americana.
La lenta (e probabilmente senza futuro) camminata verso la stesura del PiTESAI e il caso della Global Med sono sintomi di un meccanismo legislativo stagnante, che perde le occasioni per rinnovarsi. Le leggi, frammentarie e confuse, finiscono fin troppo spesso per favorire i grandi colossi del petrolio a discapito dell’ambiente e delle realtà locali, coinvolte in prima linea ma silenziate nel 2009. Così, discussioni su tematiche rilevanti come l’utilizzo dell’air gun o il raggiro della legge sul limite dei 750 km² si concludono per mancanze di norme stringenti che regolino le specifiche questioni. E mentre il PiTESAI potrebbe rappresentare una grande opportunità per riflettere sul futuro delle estrazioni, le continue proroghe ne neutralizzano la potenzialità.
Articolo di Elena D’Acunto, Matteo Cortellari, Federica Fiorilla, Eleonora Pizzichelli, Lucia Necchi