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Trump ha trasformato la giustizia federale, ma in pochi se ne sono accorti
Trump e McConnell hanno abilmente trasformato la giustizia federale per i prossimi vent’anni
L’ultima sfida lanciata da Trump all’amministrazione Biden e ai Democratici ha avuto inizio all’incirca un mese fa in Texas. L’arma non sono i tweet e nemmeno un’insurrezione ma le nomine giudiziarie effettuate nel corso dei quattro anni del suo mandato. Il 22 gennaio, il procuratore generale del Texas Ken Paxton ha presentato un ricorso nei confronti del Dipartimento di Sicurezza Interna (DHS) in seguito alla moratoria di 100 giorni contro il respingimento dei migranti voluta da Biden. La scelta del luogo è caduta ovviamente su uno dei distretti più conservatori del Texas del sud, quello di Victoria. Il giudice a cui è stato assegnato il caso, Drew Tipton, altri non è che uno dei 245 giudici federali nominati dal Presidente Trump e confermati dal Senato. Il ricorso è stato ovviamente accolto, con la motivazione che la moratoria comporterebbe costi eccessivi per lo Stato del Texas e che andrebbe contro una legge federale e un accordo firmato negli ultimi giorni della presidenza Trump tra l’amministrazione federale e il governo texano che impone una consultazione bipartisan prima di qualunque riforma migratoria. Si tratta del primo caso eclatante e manifesto dell’eredità lasciata dal quarantacinquesimo Presidente USA e il timore di Biden e dei Democratici è che sarà estremamente difficile liberarsene o perlomeno aggirarla.
Tutti i giudici del Presidente e la mano (in)visibile di Mitch McConnell
Le nomine totali di Trump, stando agli ultimi dati ufficiali del 31 dicembre 2020, sono state 245, di cui 231 volte a riempire posti vacanti alla Corte Suprema, alle Corti Regionali d’Appello o alle Corti Distrettuali mentre i restanti giudici sono stati destinati a corti speciali o territoriali (come quelle delle Isole Vergini US). Solo Jimmy Carter, nel suo singolo mandato, ha nominato più giudici di Trump (262), senza però metter mano alla Corte Suprema. Questo dominio, come mostrato in precedenza, sta già cominciando a dare i suoi frutti e deriva da una strategia abilmente elaborata dal senatore repubblicano del Kentucky Mitch McConnell, leader della maggioranza al Senato dal 2015 al 2021, quando ha lasciato il suo posto al democratico Chuck Schumer a seguito della sconfitta elettorale del GOP in Georgia. McConnell si è prodigato, sin dalla presidenza Obama, nel creare le condizioni perfette per un dominio repubblicano sulla giustizia federale, specialmente, ma non esclusivamente alla Corte Suprema, rallentando il processo di conferma delle nomine in Senato. Il caso più celebre è certamente la mancata conferma del candidato Merrick Garland sul finire della presidenza Obama. A quel tempo, McConnell si oppose alla nomina, affermando che spettava ai cittadini, tramite le elezioni presidenziali del 2016, stabilire chi avrebbe riempito quel posto vacante. Come ben sappiamo, le elezioni furono vinte da Trump che procedette alla nomina di Neil Gorsuch. Questo ovviamente è stato possibile solo perché i Repubblicani detenevano la maggioranza al Senato e avevano la possibilità di bloccare, tramite una pratica detta filibuster che può essere sbloccata solo da una maggioranza di due terzi del Senato, la discussione sulla nomina e quindi la votazione.
Questa regola è stata poi infranta da McConnell stesso attraverso un’altra pratica curiosa conosciuta come “nuclear option” (abolendo il vincolo della maggioranza di due terzi del Senato per la nomina dei giudici della Corte Suprema), per procedere alla nomina di Amy Coney Barrett alla morte di Ruth Bader Ginsburg. Ma il vero problema non è la Corte Suprema: questa esamina circa 70/80 casi all’anno e due dei tre giudici sostituiti, Scalia e Kennedy, erano conservatori, sebbene quest’ultimo si fosse distinto per la sua indipendenza. Ciò che passa inosservato, ma che lascerà una forte impronta nelle Corti Federali americane, è la nomina di 54 giudici nelle Corti di Appello Regionali (Circuit Courts) su un totale di 179 e di altri 174 nelle Corti Distrettuali su un totale di 677. La nomina di così tanti giudici è stata possibile poiché il Senato di McConnell non aveva bloccato solo la nomina di Garland alla Corte Suprema, ma anche quasi tutte le altre per le corti inferiori proposte da Obama dall’inizio del 2015. Infatti, se è vero che sta al Presidente nominare i giudici federali, senza l’approvazione del Senato queste decisioni non valgono nulla, poiché la formula ufficiale recita “[…] con il consiglio e il consenso del Senato[…]”. In più, il numero di giudici eletti da Trump è così alto perché la maggioranza repubblicana del Senato ha infranto una ufficiosa ma da sempre rispettata regola: fino al 2016, l’approvazione di un giudice da parte del Senato doveva essere supportata dai due senatori dello Stato in cui quel giudice veniva eletto.
Tuttavia, la maggioranza di Mitch McConnell ha deciso di ignorare questa usanza consolidata e ha eletto vari giudici senza il voto dei senatori dello Stato interessato; quattro di questi sono stati nominati alla Corte d’appello del nono circuito, una delle più importanti corti del Paese che si era fatta notare per aver annullato molti dei più controversi ordini esecutivi di Trump, come il travel ban per i paesi a maggioranza musulmana. Non a caso questa corte è nota come la bestia nera dei Repubblicani.
Come funziona la giustizia statunitense?
Negli Stati Uniti esistono due tipi di giurisprudenza: quella statale e quella federale (il che spiega perché la pena di morte non sia diffusa in tutti gli Stati). Sebbene queste a volte si sovrappongano, nella maggior parte dei casi sono ben distinte e le corti federali si occupano principalmente delle violazioni degli statuti federali e della Costituzione, ma anche dei casi che riguardano cittadini di diversi Stati o casi internazionali. Il “primo livello” è rappresentato dalle Corti Distrettuali, una per ogni Stato, per un totale di 677 giudici. Il numero varia a seconda della densità di ciascuno Stato e mentre il Wyoming ne ha solo 3, lo Stato di New York ne ha ben 52, divisi in quattro distretti. In seguito a una sentenza di questi tribunali, la difesa può fare appello alle già citate undici Corti di Appello Regionali (oltre a quella autonoma del District of Columbia) che hanno giurisdizione su un determinato numero di Stati. Alle Corti Distrettuali si aggiungono le Bankruptcy Courts (una per ogni Stato) che appellano alle Corti Regionali e la Tax Court che ha invece giurisdizione nazionale. Considerando un totale di 376.762 casi portati di fronte alle Corti Distrettuali e 47.977 giunti di fronte alle Corti Regionali di Appello nel 2019 e il fatto che la Corte Suprema visiona circa 70/80 casi all’anno, si può facilmente comprendere che le numerose nomine (a vita) di Trump, poco più di un quarto del totale, nei primi “due livelli” della giustizia federale avranno una certa influenza sulla giurisprudenza federale dei prossimi decenni.
Chi sono i giudici di Trump?
Un fattore determinante di queste nomine è quello anagrafico. Le nomine di Trump alla Corte d’Appello infatti sono tutte giovani maschi (76%) bianchi (86%) e con un’età media di 48 anni, cosa che garantirà a questi giudici di operare per almeno una ventina d’anni. Si tratta infatti di un incarico a vita e l’età media dei giudici che vanno in pensione è di 68 anni. La situazione è simile nelle Corti Distrettuali con un’età media di 51 anni e un’età di pensionamento di 66 anni. Si tratta del primo presidente, dai tempi di Reagan, a invertire il trend di crescente diversità (etnica e di genere) nelle nomine, che aveva raggiunto l’acme durante la Presidenza Obama. Il migliore esempio è certamente Brett Kavanaugh, bianco, accusato di molestie sessuali, sposato e cattolico praticante. I giudici di Trump non solo sono anagraficamente e etnicamente simili, ma sono anche più conservatori rispetto alla media dei precedenti presidenti repubblicani, che per la regola dell’approvazione dei senatori dello Stato interessato, erano stati obbligati a nominare anche dei giudici democratici.
Fra i più famosi giudici del Presidente c’è Kyle Duncan, eletto alla Quinta Corte d’Appello nel 2018, che si è fatto conoscere quando, in piena pandemia, ha sostenuto l’ordine del Governatore del Texas Greg Abbott che vietava l’aborto nello Stato fino alla fine del periodo di emergenza, poiché considerato una procedura medica “non urgente”. La Corte Suprema ha annullato questo provvedimento a fine gennaio 2021, dopo la richiesta dell’associazione Planned Parenthood di riesaminare il caso. Per mesi, alle donne texane è stato negato il diritto all’aborto, e molte di loro hanno dovuto lasciare lo Stato per esercitare tale diritto. Duncan si è anche detto contrario all’utilizzo dei pronomi richiesti dalle persone transgender durante i processi, sostenendo che ciò avrebbe rappresentato un problema per la sua imparzialità giudiziaria.
Insieme a lui c’è Justin Walker, un giudice di appena 39 anni che si è formato come assistente legale di Brett Kavanaugh. Walker è stato notato da Trump quando, durante le udienze preliminari per l’elezione di Kavanaugh alla Corte Suprema, ha rilasciato 119 interviste difendendo quest’ultimo dalle accuse di violenza sessuale che gli erano state rivolte. Grazie a questo exploit, è stato nominato nel 2019, senza praticamente alcuna esperienza, alla Corte Distrettuale per il distretto occidentale del Kentucky, e solo un anno dopo alla Corte d’Appello di D.C. dove, salvo ulteriori avanzamenti di carriera, siederà fino a quando non andrà in pensione. Durante il suo breve periodo alla Corte del Kentucky, Walker ha avuto la possibilità di emettere sentenze che discriminavano la comunità LGBT+ nel suo distretto.
Infine, fra i 245 giudici eletti, le circa 50 donne nominate si distinguono per le loro forti opinioni contro il diritto all’aborto, come la neoeletta giudice alla Corte Suprema Amy Coney Barrett, o la giudice alla Corte Distrettuale per il distretto orientale del Missouri Sarah Pitlyk, che era finita insieme alla Barrett nella rosa dei possibili candidati alla Corte Suprema dopo la morte della storica giudice e icona femminista Ruth Bader Ginsburg.
Con una Corte Suprema composta da sei giudici repubblicani e tre democratici e delle corti federali sempre più conservatrici, non è scontato che Biden riuscirà a passare molte delle sue proposte più coraggiose, nonostante i Democratici abbiano la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Il caso del giudice Drew Tipton che ha respinto l’ordine esecutivo di Biden sullo stop ai rimpatri in Texas sembra essere solo il primo di una lunga serie di battaglie fra il nuovo presidente ed il potere giudiziario. Anche prima della nomina di Biden, molti sono stati i casi di giudici ultraconservatori che hanno emanato sentenze a sfavore delle minoranze, ma raramente se ne sente parlare, anche all’interno degli Stati Uniti stessi. Questo perché ciò che rende così efficace questa operazione è il fatto che non viene portata avanti solo grazie a sentenze a livello nazionale, come quelle della Corte Suprema, seguite con trasporto dall’intero Paese, ma attraverso centinaia di sentenze di minor rilevanza che spesso non vengono neanche trattate dalla stampa locale, ma che impattano concretamente la vita dei cittadini statunitensi.
È questa l’eredità più complessa e pesante dell’amministrazione Trump, e con ogni probabilità sarà la più duratura.
Articolo di Luca Zucchetti e Ginevra Falciani