La questione uigura nel contesto internazionale

Lo Xinjiang, da problema umanitario a geo-economico

24/05/2021

Cina e minoranze: un rapporto difficile

L’effervescenza politica e sociale della regione cinese dello Xinjiang è una costante nella storia più o meno recente della Repubblica Popolare. Di sicuro, negli ultimi anni i rapporti tra la minoranza Uigura e il governo centrale di Pechino sono drasticamente peggiorati. L’omologazione culturale attuata dal partito comunista cinese, non rappresenta certo una novità. Le immagini dei templi deturpati sugli altopiani del Tibet, sotto i colpi di una folle rivoluzione culturale, sono passate alla storia come tra le più atroci del comunismo di Mao Tse-Tung.

Come anticipato in un precedente articolo sullo Xinjiang su Scomodo, le minoranze e la loro gestione hanno rappresentato sempre una grandissima problematica per il governo cinese: quando all’ideologia si mescolano anche gli interessi geopolitici ed economici, la situazione si complica in maniera irreversibile. La regione nord occidentale dello Xinjiang è attraversata da quella che ancora oggi -sulla falsa riga di quella narrata da Marco Polo nel suo Milione- rappresenta una delle rotte commerciali più proficue sul mercato globale, che collega l’estremo oriente all’Europa, passando per l’Asia centrale: la Via della seta. Anche e soprattutto per questo, la stabilizzazione della regione è necessaria e vitale. Il territorio autonomo è abitato per il 45% dall’etnia – minoritaria a livello nazionale – degli Uiguri, di religione musulmana. I contatti – sia territoriali che culturali – con i confinanti Stati a maggioranza islamica, impensierisce non poco il governo centrale. La paura di una deriva fondamentalista è fortissima, tant’è che la repressione negli ultimi vent’anni è diventata cruenta e genocidaria. Ai campi di “Trasformazione attraverso l’educazione” in cui vengono confinati gli Uiguri, il mondo occidentale capeggiato dagli USA, risponde con dazi e sanzioni. Il fattore economico di queste decisioni, imposte sotto il vessillo della difesa dei diritti umani, non è certamente secondario. La situazione è per questo tesa, e anche con l’elezione del democratico Biden, non sembra ci sia volontà – stando ai toni utilizzati nei confronti della Cina – reale di riavvicinamento. 

 

Potenze a confronto

Le sanzioni degli USA e dell’Unione europea alla Cina per la questione uigura hanno portato quest’ultima a rispondere con altrettante sanzioni, in questo caso rivolte verso dieci personalità europee, tra i quali vi sono cinque eurodeputati e quattro fondazioni, accusati – a detta del governo cinese – di alimentare disinformazione e di spargere bugie per screditare il Paese. Viceversa, l’Europa viene accusata dalla Russia, intervenuta a favore della Cina, di accodarsi acriticamente alla politica estera americana, rischiando di compromettere le relazioni diplomatiche ed economiche reciproche, diventate ancor più problematiche con la recente mobilitazione di ingenti truppe russe al confine con l’Ucraina, contro la quale è in guerra dal 2014, e con il peggioramento delle condizioni di salute del dissidente russo Aleksej Naval’ny incarcerato. In questo scenario, pare delinearsi sempre più chiaramente uno scontro economico e politico tra due blocchi, che sembra far riemergere alcune somiglianze storiche con la Guerra fredda: il blocco occidentale a guida statunitense, e il blocco orientale rappresentato da Cina, Russia e da alcuni paesi in via sviluppo, i quali sono caratterizzati da regimi dittatoriali o semi-dittatoriali, che hanno uno stretto legame economico con la prima grazie al progetto BRI (Belt and Road Initiative). Nello specifico, gli Usa hanno dichiarato già da diversi mesi la loro posizione nei confronti della Cina sulla situazione degli Uiguri in Xinjiang, con le parole dure del Segretario di Stato Usa Antony Blinken nell’incontro con la delegazione cinese ad Anchorage, in Alaska, dove i diplomatici americani hanno messo alle strette la delegazione di Pechino suggerendo, con dichiarazioni decise, di fare attenzione alla gestione di Xinjiang, Hong Kong e Taiwan. Dichiarazioni non apprezzate dalla delegazione cinese, che esterna tutto il malumore maturato in questi ultimi anni a causa dei dazi commerciali a opera di Donald Trump. Nello stesso incontro i due diplomatici cinesi Yang Jiechi e Wang Yi replicano alle critiche facendo notare l’ipocrisia degli Stati Uniti, in riferimento agli scontri tra la polizia e la comunità afroamericana. In questa situazione, la Russia sfrutta lo scontro tra USA e Cina per cercare di contrastare la sfera d’influenza della prima. Il Presidente Joe Biden aveva già inasprito i rapporti con Putin, definendo il Presidente Russo un killer, a causa dell’avvelenamento del dissidente russo Aleksej Naval’nyj. La strategia russa di contrasto alle misure prese dalle presidenze americane ha come obiettivo politico quello di creare una più coesa alleanza commerciale con la Cina, nell’attesa che anche l’UE si schieri in maniera decisa da uno dei due lati. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov è il primo a prendere le difese di Pechino, affermando che “gli Usa stanno creando una situazione da guerra fredda”. E proprio quest’ultimo, in un’intervista al canale inglese della Tv cinese Cctv, consiglia per primo alla potenza asiatica di diminuire la dipendenza dal dollaro. Ciò cosa significa? Si deve tenere in conto che le transazioni commerciali tra Paesi a livello internazionale avvengono prendendo come valuta principale di scambio il dollaro statunitense, il che significa che se un paese A vuole acquistare un determinato ammontare di bene o/e servizi X dal paese B, può farlo usando come valuta di scambio un determinato ammontare di dollari in base al tasso di cambio con la valuta nazionale di A. Questo ha come conseguenza che la capacità di acquisto di A dipenda dal dollaro, il cui cambio con la valuta nazionale è autorizzato da una banca statunitense. 

Nel caso della Russia e della Cina, questa dinamica economica permette al Governo americano di impedire questa transizione monetaria e quindi lo scambio commerciale. Nel primo trimestre del 2020, l’uso del dollaro negli scambi commerciali tra Cina e Russia è sceso a quota 46% dei pagamenti totali. Il pagamento avviene in maggior parte attraverso l’accesso alla valuta nazionale di uno dei due paesi, senza passare quindi per il mercato dei cambi. In questo progetto economico, è lo yuan ad assumere una posizione di valuta forte rispetto al rublo, infatti la Russia sta investendo molto in titoli di stato cinesi, aumentando l’ammontare di riserve di rublo detenute dalla Cina, e così anche la Cina con titoli russi. 

Il primo nome sanzionato da Ue, Stati Uniti e Canada, nonché quello più rilevante, è quello di Zhu Haulin, considerato l’artefice e la vera mente diabolica che sta dietro la persecuzione degli Uiguri. A lui si aggiungono altri tre nomi: Wang Junzheng, Wang Mingshan e Chen Mingguo, tutti responsabili dello stesso reato di vigilanza e maltrattamento nei confronti della minoranza musulmana.La Cina ora si ritrova a fronteggiare una grossa minaccia sul piano commerciale, incentrata sull’esportazione di cotone. Negli scorsi mesi gli Usa e molte aziende del settore abbigliamento hanno sfidato il colosso asiatico, mettendo a dura prova il governo cinese, ancora una volta chiamato a dimostrare trasparenza sulla situazione Xinjiang. 

 

Cina contro tutti

Nike, Adidas, H&M, New Balance, Burberry, Zara, Hugo Boss: sono solo alcune delle aziende che hanno subìto il boicottaggio cinese dopo le sanzioni occidentali. Alcune di esse – come ad esempio Zara – hanno cancellato il comunicato sul loro sito che esprimeva dubbi riguardo i lavoratori nei campi di cotone nello Xinjiang, altre invece hanno confermato la loro perplessità, come Hugo Boss.

Dopo lo scontro diplomatico, il 26 marzo, la filiale di Shanghai della Better Cotton Initiative (BCI) – organizzazione senza scopo di lucro con il programma più grande al mondo per la sostenibilità del cotone, che ha come membri i brand più prestigiosi e conosciuti nell’abbigliamento – ha ribadito «ancora una volta solennemente che il team del progetto cinese si attiene rigorosamente ai principi di audit della BCI», sostenendo di non aver trovato nessuna prova di lavoro forzato nella raccolta di cotone nello Xinjiang. L’organizzazione ha poi ritirato l’annuncio di ottobre 2020 dove dichiarava di attuare un “disimpegno responsabile” dallo Xinjiang. In seguito alle sanzioni, in Cina ha avuto luogo un importante rappresaglia dei media cinesi, che, con una serie di articoli e post replicati a cascata sul social Weibo, difendevano lo Stato dalle accuse. Pertanto, se giornali e tv europee e statunitensi parlavano di boicottaggio da parte della Cina, in Cina è stato esattamente il contrario: i media affermavano che l’Occidente stesse boicottando il cotone dello Xinjiang. «Diffondere voci per boicottare il cotone dello Xinjiang, ma anche voler fare soldi in Cina? Pensiero speranzoso!» ha scritto la Lega della Gioventù Comunista su Weibo. «Non si può chiedere alla Cina di fare un passo indietro e di risparmiare le società in modo che possano essere ‘politicamente corrette’ in Occidente», ha scritto il Global Times, giornale controllato dal Partito Comunista Cinese. Dopo dichiarazioni di questo genere, molti utenti, ma anche influencer e personaggi dello spettacolo, si sono riuniti in prese di posizione contro le multinazionali nel territorio cinese. Sono stati pubblicati da alcuni media anche rapporti ottimistici sulla raccolta del cotone e sui social si sono diffusi hashtag a sostegno del Governo centrale. 

H&M è stata criticata particolarmente: Cctv critica l’azienda svedese per “aver mangiato riso cinese e poi rotto la pentola”, mentre alcuni negozi fisici di H&M venivano chiusi, riporta Bloomberg. Sono stati rimossi dei cartelloni pubblicitari dell’azienda, i suoi prodotti sono divenuti irreperibili su tutte le principali piattaforme di shopping online, l’applicazione è stata eliminata dallo store Android e i negozi fisici non comparivano più nelle mappe online. Tutto ciò a seguito – anche, ma non solo – alle dichiarazioni della Lega della Gioventù Comunista cinese, la quale ha rammentato un comunicato di H&M di settembre, dove l’azienda diceva di non volersi più rifornire con cotone raccolto nello Xinjiang.

La Cina ricava dallo Xinjiang l’87% della sua produzione di cotone, e la decisione di H&M e di altre multinazionali di prenderne le distanze aveva portato a un drastico calo degli ordini. D’altro canto, la Cina è il quarto mercato più rilevante per H&M (e per altre molte aziende del settore), con vendite che ammontano a 339 milioni di dollari, considerando i dati del periodo novembre 2019-20. Bill Bishop – autore della newsletter Sinocism – scrive che “se [le multinazionali, ndr] scelgono di stare dalla parte sbagliata sullo Xinjiang e su altri temi sensibili per il Partito Comunista, il loro business può essere distrutto dall’oggi al domani”. Ad esempio, per Nike il mercato cinese è il terzo per importanza, fruttando, tra maggio 2019 e maggio 2020, ricavi per 6,7 miliardi di dollari nell’area cosiddetta Greater China. 

La propaganda cinese sta spostando l’attenzione da una questione umanitaria – che pare innegabile – a una cornice geopolitica e patriottica. Al contrario di ciò che avviene in Occidente, dove ci si sta focalizzando prettamente sull’aspetto dei diritti umani. Spostando in questo senso la lente della questione uigura, il Governo centrale instilla contemporaneamente un sentimento di avversione verso le potenze estere e di patriottismo nella popolazione. Come riporta il Washington Post, un sondaggio condotto tra il 2016 e 2018 su utenti cinesi da Jamie Gruffydd-Jones – docente all’University of Kent che fa ricerca su politica autoritaria e il nazionalismo, concentrandosi sulla Cina – dimostra che dopo critiche provenienti da potenze ostili come gli Stati Uniti sui diritti delle donne in Cina, gli intervistati si dicevano meno propensi a credere che effettivamente la condizione femminile nel paese dovesse essere migliorata; mentre, se la critica proveniva da altri soggetti considerati meno ostili, tali critiche venivano più liberamente accettate. Il fatto che il Governo centrale stia fomentando gli animi patriottici dei cittadini, va esattamente in questa direzione.

 

Compromessi e democrazia

L’Unione Europea ha sempre rappresentato un unicum nel panorama delle relazioni e delle organizzazioni internazionali. Grazie al processo di integrazione europea, ha portato a un sempre progressivo assottigliamento del metodo intergovernativo a favore di quello comunitario, dove essenzialmente a decidere sulle questioni decisive sono gli organi dell’Unione. Una così complessa organizzazione, se paragonata con il modello simil dittatoriale e accentrato di Pechino, rappresenta forse l’esatto opposto. È anche per questo che la diplomazia del dragone è incappata in una serie di gaffes e misunderstandings con le cancellerie dei 27 membri, nonché con le istituzioni comunitarie stesse.

Il punto di contatto più stretto tra questi due giganti internazionali si è raggiunto in questi ultimi anni con l’avanzata dei negoziati, proposti nel 2013, del CAI (EU-China Comprehensive Agreement on Investment): un accordo commerciale che cerca sostanzialmente di creare le condizioni per un mercato più bilanciato, ad oggi inesistente perché favorevolmente orientato verso Pechino. Le aziende cinesi hanno un grande margine di libertà nel mercato europeo, a differenza di quelle del Vecchio Continente che incappano ancora oggi in ardue limitazioni. Tuttavia, in seguito all’aggravarsi della questione uigura e alla la decisione di imporre sanzioni, la ratifica, inizialmente prevista per questi mesi, sembra essere irrimediabilmente compromessa.

Pechino ha sempre mostrato numerose difficoltà a relazionarsi con le democrazie occidentali, e soprattutto con una realtà così variegata ed atipica come quella comunitaria. Il primo vero scontro tra Cina e UE, che cooperano ufficialmente dal 1975, è stato sicuramente l’embargo di armi imposto in seguito al massacro di Piazza Tienanmen. Il partito non ha mai digerito questa decisione, giudicandola politicamente discriminatoria e strumentale, e chiedendo a più riprese che fosse ritirato. Proprio la questione dell’embargo può essere presa come spunto rappresentativo del potenziale divisivo che possiede la PRC tra i paesi comunitari e non solo. Tra il 2004 e il 2005, all’interno delle istituzioni europee si sono svolti una serie di dibattiti riguardanti la proposta di allentare tale misura restrittiva. Al tempo si delinearono due blocchi: uno “pro-China” capeggiato dalla Francia (maggioritario), che considerava la misura anacronistica e dannosa per le relazioni diplomatiche e commerciali; l’altro capeggiato dalla Danimarca, e fortemente supportato dalla cancelliera Merkel, che ponevano come conditio sine qua non, il rispetto dei diritti umani. Ancora oggi l’embargo resiste alle richieste di Pechino, ma i malumori all’interno del triangolo istituzionale rimangono profondi.

Tra ambasciatori richiamati e sanzioni, la Cina rimane un partner commerciale con cui è necessario comunicare per esigenze di mercato. Questo non deve però portare a una deroga rispetto allo stato di diritto e alla tutela dei diritti umani, entrambi cardini dell’Unione.

Articolo di Nicolò Benassi, Lorenzo Sagnimeni, Gianluca Morena, Francesco Canu