UN PAESE DI CEMENTO

Sogni di calcestruzzo

Quando Goethe nel suo Viaggio in Italia affermò che “l’architettura in Italia è una seconda natura”, aveva certamente ancora negli occhi le immagini di un viaggio iniziato nel nord tra le ville del Palladio e terminato con il secondo soggiorno romano, e non poteva immaginare la tragica ironia di cui si sarebbe ricoperta questa frase nei secoli successivi. Quello dell’Italia era infatti certamente già al tempo di Goethe un paesaggio fortemente antropizzato, ma che ancora non aveva fatto i conti con il suo più acerrimo nemico: il cemento. Ovviamente intendiamo il cemento moderno, più correttamente “calcestruzzo armato”, poiché il suo antenato latino, da cui ha preso il nome(Caementium), fu un elemento nevralgico per lo sviluppo dell’Impero romano. Nonostante la storica “affinità”, nell’Ottocento l’Italia non risulta tra i first comers della prima fase, chiamata “pionieristica”, di sviluppo del nuovo materiale. Il che non impedì tuttavia di riconoscerne velocemente le potenzialità, così già nel 1911 il cemento, prodotto con il Systéme Hennebique, faceva il suo trionfale ritorno a Roma grazie all’ingegner Giovanni Porcheddu, che lo utilizzò per realizzare Ponte Risorgimento, con la sua luce di 100 metri, all’epoca la più estesa al mondo.

L’eredità della guerra

Gli anni successivi videro nascere nuovi stili architettonici collegati alle potenzialità strutturali di questo materiale che contribuirono a fare del cemento lo strumento privilegiato per la sperimentazione e l’innovazione dell’architettura. Se fino alla seconda Guerra Mondiale l’evoluzione del linguaggio architettonico verso purismo, funzionalismo e brutalismo era parsa in linea con le idee sociali e politiche che si andavano sviluppando, in Italia come in Europa, sarà nel dopoguerra che si giocherà la vera partita.

La ricostruzione edilizia era infatti omnicomprensivamente riconosciuta come un momento cruciale dal quale sarebbe passata la creazione della “nuova società italiana”. Tanto da spingere Giulio Carlo Argan nel 1946 ad affermare sulla rivista Il Politecnico “[…] ogni architetto e urbanista è un riformatore sociale, allo stesso modo che gli architetti del rinascimento sono stati i riformatori del pensiero scientifico del loro tempo.” Le due principali tendenze nell’architettura italiana di quel periodo erano la scuola “organicista” romana, legata a una concezione rurale, e quella “razionalista” milanese più affine a una cultura industriale centro europea. Vi era poi una terza via, patrocinata dall’industriale Adriano Olivetti, che vedeva la figura dell’urbanista non tanto come un demiurgo che indicasse una via quanto come un interprete delle esigenze e degli scopi della nuova società nascente. Difficilmente la visione di Olivetti sarebbe potuta essere più disattesa…

La paralisi, l’anarchia, il boom, il mezzogiorno

I primi due governi De Gasperi furono governi di coalizione tra la DC e il PCI, in cui alla volontà di collaborazione era sottesa una diffidenza nei confronti degli avversari. Emblematico è il caso di un emendamento presentato dalla sinistra all’Assemblea Costituente nel maggio del ’47: “lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività economica secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività”. Nonostante anche i più liberisti concordassero con una necessità di programmazione, la semplice parola piano evocò nella stampa il terrore dello stalinismo (nonostante per altro la presenza in essere del piano Marshall) e l’emendamento fu bocciato senza appello. Questo biennio fu quindi contraddistinto da politiche di attesa che sollevarono le critiche degli stessi americani, oltre a far sì che il reddito pro-capite nel ’47 fosse circa il 78% di quello prebellico. Le pressioni internazionali, e non solo, individuavano come unica soluzione una politica economica keynesiana, in sostanza… costruire. Sono quindi gli anni dei grandi interventi nei settori dei lavori pubblici e dell’edilizia con ad esempio la legge Tupini e soprattutto il “Piano casa”, meglio noto come “Piano Fanfani”, che istituiva l’ente INA-Casa preposto alla realizzazione di “provvedimenti a favore dell’occupazione e tesi a facilitare la costruzione di case popolari”, il tutto però senza alcun piano regolatore in merito.

Questo significò il raggiungimento del pareggio di bilancio e la piena occupazione, ma anche, ad esempio, che nella città di Roma nel 1970 una casa su sei fosse abusiva. Ma a pagare di più la mancanza di programmazione e attenzione nella gestione fu il Sud. Da un lato infatti lo sbilanciamento dei finanziamenti (86% al centro-nord, 14% al sud) acuì la già drammatica “questione meridionale” portando a un esodo di massa di circa 10 milioni di persone che trasformerà, ad esempio, nel 1967 Torino nella terza città “meridionale” d’Italia dopo Napoli e Palermo. Ovviamente lo spostamento non fece altro che aumentare le richieste di edilizia abitativa e abusi nelle grandi città. Dall’altro lato investimenti e istituzioni, come ad esempio la riforma agraria e la Cassa del Mezzogiorno, provarono semplicemente a replicare il modello nazionale, non tenendo conto delle differenze intrinseche di questa terra e si trasformarono in fallimenti di spesa pubblica e sociali. Nasce infatti proprio in quegli anni il termine “cattedrali nel deserto”, in riferimento a insediamenti industriali come Italsider di Taranto o Alfasud di Pomigliano. Dal punto di vista dell’edilizia abitativa è emblematico il caso della Martella, borgo ideato per migliorare le condizioni di vita degli abitanti dei “Sassi” di Matera, ma il trasferimento forzato in un luogo privo di legami e misterioso non fece altro che spingere la maggior parte degli interessati a emigrare.

L’IMPATTO AMBIENTALE DEL CEMENTO

Il prezzo della pace sociale

Il cemento diviene così negli anni del boom un elemento culturale, utilizzato persino come medium artistico da Giuseppe Uncini, che ne farà la sua firma; o come il termine “cementificazione”, che nel 1964, in concomitanza con l’inaugurazione dell’autostrada A1, entra nel vocabolario italiano e viene cantata da Celentano. A cinquant’anni di distanza però facciamo i conti con quello che è rimasto di quel periodo: ecomostri, cattedrali nel deserto, distese sconfinate di opere incompiute o abbandonate. Ciò che resta di ideali che non hanno retto alla prova del tempo, rovine di un passato prossimo, non causate da una guerra, anche se ci sono stati spari, morti e conquiste di territori. Ma nonostante le testimonianze di questo fallimento siano proprio davanti ai nostri occhi rifiutiamo di prenderne atto, continuando a produrre incubi di calcestruzzo con cui prima o poi la nostra generazione dovrà fare i conti.

Composti e materiali

Il cemento è un legante idraulico utilizzato nelle costruzioni per legare insieme altri materiali. E’ mescolato con sabbia, ghiaia e acqua per produrre calcestruzzo, il materiale da costruzione più utilizzato al mondo. Nel futuro la reperibilità di queste materie non sarà scontata, mentre, d’altra parte, l’acqua pulita, che serve per la produzione, è una risorsa estremamente preziosa, soprattutto in alcuni luoghi del mondo. Tuttavia ogni anno vengono utilizzate oltre dieci miliardi di tonnellate di calcestruzzo. Lo standard
industriale è un tipo di cemento chiamato Portland. Oggi è utilizzato nel 98% del calcestruzzo a livello globale, con 4 miliardi di tonnellate prodotte ogni anno. In Italia i dati del 2007 mostrano una produzione di 46mila tonnellate di clinker (secondo i dati riportati da U.S. Geological Survey). La produzione del clinker di Portland, che funge da legante, è un passaggio cruciale nella fabbricazione del cemento di Portland. Il calcare viene “calcinato” ad alte temperature in una fornace di cemento per produrre calce: tale procedimento determina il rilascio di CO2 di scarto. La produzione di CO2 durante la reazione è dunque inevitabile. Se la metà delle emissioni di CO2 dovute alla produzione di cemento proviene dunque da questo processo volto alla produzione del clinker, il modo per diminuire le emissioni garantendo l’efficacia del metodo è quello di sostituire almeno in parte il clinker con materiali diversi. Va poi considerato che anche il tipo di combustibile e quindi la modernità delle apparecchiature utilizzate durante la produzione hanno un impatto di circa il 40% sull’emissione di gas serra, mentre il restante 10% è dovuto al trasporto. Un’accurata analisi di Carbon Brief, un sito web con sede nel Regno Unito progettato con l’obiettivo di migliorare la comprensione dei cambiamenti climatici, mostra che, per tagliare le emissioni di CO2 del settore, un fondamentale passo da compiere è il mutamento del tipo di combustibile impiegato per il riscaldamento ad altissime temperature dei forni in cui avviene il processo di calcinazione, sostituendo il carbone con fonti alternative. Tutto ciò in un contesto volto anche a migliorare l’efficienza energetica dei forni. Come detto, una strada può essere quella di diminuire il clinker nel cemento. La tecnologia si sta orientando verso la creazione di cementi da materiali sintetici (geopolimeri) con maggiore capacità di assorbire CO2. Tuttavia l’obiettivo non è stato ancora raggiunto, dato che lo sviluppo di tecnologie innovative deve fare i conti con politiche aziendali e statali non sempre attente: sono necessari infatti elevati finanziamenti per commercializzare su vasta scala i cementi più innovativi.

La domanda e la produzione

Secondo Chatham House, un importante centro studi britannico, c’è ancora un altro fattore da considerare: l’intensità media di CO2 nella produzione di cemento le emissioni per tonnellate di produzione è diminuita del 18% a livello globale negli ultimi decenni. Tuttavia, le emissioni del settore nel suo complesso sono aumentate in modo significativo, con una domanda triplicata dal 1990. Un altro importante fattore, che determina ovviamente una riduzione delle emissioni e un abbattimento della produzione di cemento, è sicuramente la riduzione della domanda di mercato. Così, metodi di economia circolare possono consentire il riutilizzo di parti modulari degli edifici e favorire la necessità di massimizzare la durata dell’infrastruttura in modo tale da ridurre la richiesta futura. Sorge spontanea la
domanda sulla necessità di produrre in Italia ancora così tanto cemento se il suo utilizzo tendesse in
prospettiva a diminuire. Inoltre, come vedremo più avanti, il calcestruzzo negli edifici potrebbe essere anche in parte sostituito con legno certificato, potenzialmente consentendo la cattura e lo stoccaggio di CO2. Un dato è rilevante: ad oggi le emissioni mondiali dovute alla produzione di cemento sono di circa l’8% del totale di emissioni di gas serra. E, come sostiene Carbon Brief in chiusura dell’analisi, il cemento è uno dei settori considerati più difficili da de-carbonizzare. Per limitare il suo impatto ambientale si dovrà necessariamente puntare sui metodi di economia circolare, che prevedono, come dicevamo, il riciclo dei materiali o anche la progettazione di edifici più leggeri, duraturi ed efficienti grazie alle tecniche di bioedilizia e, soprattutto per i paesi industrializzati e non in una fase di boom economico, un abbattimento della sua richiesta e dunque produzione.

I registi dell’industria

Abbiamo mostrato come in Italia la produzione del cemento è tra i settori industriali più sviluppati e numerose sono le aziende coinvolte. I maggiori gruppi di produzione cementizia nazionale sono rappresentati da Italcementi (della famiglia Pesenti), Buzzi-Unicem (della famiglia Buzzi), Cementir
(di Francesco Gaetano Caltagirone), Colacem, Sacci,Zillo e Rossi. “Queste sette aziende – afferma Paolo
Acciai, segretario nazionale della Filca, responsabile Composti e materiali Il cemento è un legante idraulico utilizzato nelle costruzioni per legare insieme altri materiali. E’ mescolato con sabbia, ghiaia e acqua per produrre calcestruzzo, il materiale da costruzione più utilizzato al mondo. Nel futuro la reperibilità di queste materie non sarà scontata, mentre, d’altra parte, l’acqua pulita, che serve per la produzione, è una risorsa estremamente preziosa, soprattutto in alcuni luoghi del mondo. Tuttavia ogni anno vengono utilizzate oltre dieci miliardi di tonnellate di calcestruzzo. Lo standard industriale è un tipo di cemento chiamato Portland. Oggi è utilizzato nel 98% del calcestruzzo a livello globale, con 4 miliardi di tonnellate prodotte ogni anno. In Italia i dati del 2007 mostrano una produzione di 46mila tonnellate di clinker (secondo i dati riportati da U.S. Geological Survey). La produzione del clinker di Portland, che funge da legante, è un passaggio cruciale nella fabbricazione del cemento di Portland. Il calcare viene “calcinato” ad alte temperature in una fornace di cemento per produrre calce: tale procedimento determina il rilascio di CO2 di scarto. La produzione di CO2 durante la reazione è dunque inevitabile. Se la metà delle emissioni di CO2 dovute alla produzione di cemento proviene dunque da questo processo volto alla produzione del clinker, il modo per diminuire le emissioni garantendo l’efficacia del metodo è quello di sostituire almeno in parte il clinker con materiali diversi. Va poi considerato che anche il tipo di combustibile e quindi la modernità delle apparecchiature utilizzate durante la produzione hanno un impatto di circa il 40% sull’emissione di gas serra, mentre il restante 10% è dovuto al trasporto. Un’accurata analisi di Carbon Brief, un sito web con sede nel Regno Unito progettato con l’obiettivo di migliorare la comprensione dei cambiamenti climatici, mostra che, per tagliare le emissioni di CO2 del settore, un fondamentale passo da compiere è il mutamento del tipo di combustibile impiegato per il riscaldamento ad altissime temperature dei forni in cui avviene il processo di calcinazione, sostituendo il carbo ne con fonti alternative. Tutto ciò in un contesto volto anche a migliorare l’efficienza energetica dei forni. Come detto, una strada può essere quella di diminuire il clinker nel cemento. La tecnologia si sta orientando verso la creazione di cementi da materiali sintetici (geopolimeri) con maggiore capacità di assorbire CO2. Tuttavia l’obiettivo non è stato ancora raggiunto, dato che lo sviluppo di tecnologie innovative deve fare i conti con politiche aziendali e statali non sempre attente: sono necessari infatti elevati finanziamenti per commercializzare su vasta scala i cementi più innovativi. del settore – con 69 unità producono circa l’80% del cemento nazionale” La più grande è decisamente Italcementi che possiede ben sei cementerie a ciclo completo, un impianto per i prodotti speciale e sei centri di macinazione. Tuttavia negli ultimi anni si è assistito ad una concentrazione di più gruppi e alla vendita ad aziende straniere: Cementir (gruppo Caltagirone) ha deciso per esempio di cedere per 315 milioni di euro tutte le sue attività italiane, cui fanno capo cinque impianti di cemento a ciclo completo, due centri di macinazione e le centrali di calcestruzzo, a Italcementi, storico marchio italiano che però la famiglia
Pesenti aveva già ceduto nel 2015 al gruppo tedesco Heidelbergcement. Un dato è fondamentale: in Italia abbiamo oltre 14 milioni di abitazioni già costruite e la speranza di costruire sempre di più per favorire
le aziende che operano nei settori in questione non è più una pratica sostenibile. Il cemento serve principalmente per le nuove costruzioni, e dunque in Italia non abbiamo più bisogno di una produzione così elevata. Secondo i dati riportati da un’analisi di Affari italiani e confermati anche dal figlio di Francesco Gaetano Caltagirone, il mercato resta con un eccesso strutturale dell’offerta (40 milioni di tonnellate l’anno di capacità produttiva) rispetto alla domanda stabile che si attesta su circa 19 milioni l’anno.

Tuttavia la nostra idea è che da un lato non vi sia più una necessità di costruire nel settore dell’edilizia abitativa, dall’altro che il tema centrale sia quello della riqualificazione e rigenerazione urbana. Ne consegue che la domanda di cemento subirà un’ulteriore diminuzione. Una riflessione è quindi doverosa in questo contesto e i piani di espansione urbana vanno studiati in altro modo, con diverse priorità, perché tutto ciò che riguarda il costruire non può non avere un legame con l’abitare. In Italia bisognerebbe soprattutto orientarsi su piani di riqualificazione del costruito. Di quante tonnellate di cemento e calcestruzzo avremo ancora bisogno nei prossimi anni? In Italia, dal boom economico fino al 2008, anno in cui è esplosa la crisi, ma in realtà fino al 2011 la produzione di calcestruzzo pro-capite ha continuato a toccare livelli altissimi, collocandosi di più di mezzo punto percentuale rispetto alla media europea(secondo i dati riportati dai rapporti Atecap). Tale produzione è stata dettata dalla logica del guadagno e si è legata allo sviluppo senza sosta e alla smania di continuare a costruire, senza barriere speculative e con una normativa assente o non rigorosa di contenimento e di tutela dell’ambiente, quando già non ce n’era più bisogno. Si pensi agli esempi di ecomostri che è possibile trovare disseminati sul territorio italiano. Due anni dopo il tifone Yolanda (Haiyan) che è costato la vita a più di 6.300 persone e creato milioni di sfollati, si è creata una Commissione per i diritti umani che nel 2017 ha invitato 47 grandi emettitori di CO2 a partecipare a una riunione preliminare in vista di un’indagine sulla responsabilità aziendale in merito alla violazione dei diritti umani legata al clima. I sopravvissuti al tifone filippino, altre comunità sensibili agli impatti dei cambiamenti climatici e organizzazioni della società civile, tra cui Greenpeace Southeast Asia (Filippine), hanno presentato una petizione a tale Commissione
nel 2015. Tra il 2015 e il 2017 la Commissione ha elencato i massimi emettitori di gas serra, i “Carbon Majors”.

Scorrendo questo elenco troviamo Italcementi, ma ancheil gruppo tedesco Heidelbergcement che ha acquisito lostorico marchio di produzione italiano nel 2015. Nella prima interazione della ricercasono state dunque trovate,da questa commissione formata da scienziati di vari settori completamente indipendenti, 90 entità responsabiliper l’emissione di miliardi ditonnellate di gas serra.

Alla ricerca di alternative

In Italia è poi spesso mancata la valutazione per quanto riguarda uno degli aspetti fondamentali dei progetti infrastrutturali, ovvero l’enorme consumo di cemento e il conseguente impatto ambientale dovuto alla sua produzione e utilizzo. I tentativi di arginare l’utilizzo di cemento e calcestruzzo sono stati finora almeno parzialmente inefficaci, nonostante la consapovelezza della natura inquinante di questo materiale. L’Atecap, associazione tecnica e organizzativa del calcestruzzo, nel rapporto annuale del 2017 afferma : “ll 2016 si chiude con un risultato deludente per gli investimenti in costruzioni, la produzione del settore non decolla e l’unico comparto che continua a registrare una crescita degli investimenti è quello della riqualificazione abitativa, un’attività che non traina la produzione di calcestruzzo preconfezionato. Dopo dieci anni di calo ininterrotto dei volumi il settore del calcestruzzo preconfezionato è un comparto industriale logoro con una struttura produttiva altamente sovradimensionata. Grandi attese, per il 2017, provengono dall’aumento delle risorse stanziate per le opere pubbliche nella legge di Bilancio” E’ chiaro che si antepongono logiche finanziarie ad un’attenzione al cambiamento ambientale del pianeta, che necessita unariduzione drastica delle emissioni di CO2. Tale attenzione deve necessariamente prescindere dalla tutela delle aziende. Le aziende hanno ampi programmi di sostenibilità, che mirano a migliorare l’efficienza nelle fasi di produzione di cemento, tuttavia spesso i rapporti sono redatti da associazioni del settore, o dalle aziende stesse, talvolta senza l’intervento di commissioni esterne e indipendenti, come ad esempio quella creatasi dopo il tifone Haiyan, che giudichino i passi che le compagnie stanno realmente compiendo per abbattere le emissioni. Una domanda che sorge spontanea è su quanto l’avere aziende così grandi in Italia e una tradizione socio culturale fortemente legata al cemento abbia limitato di fatto lo sviluppo di alternative valide alla sostituzione del cemento e del calcestruzzo da utilizzare come materiali di costruzione. L’agenzia per la Protezione Ambientale statunitense definisce “Green Building” la pratica di creare strutture con processi che sono ecologicamente responsabili ed efficienti per tutto il ciclo di vita dell’edificio stesso. Questo vale per la scelta del sito, per la progettazione, la costruzione, la gestione, la manutenzione, la ristrutturazione e la decostruzione. I materiali di costruzione prediletti dalla bioedilizia sono principalmente il legno certificato, mattoni di calce e canapa, mattoni riempiti di argilla, materiali riciclati. Chiara Tonelli, uno degli architetti con cui ci siamo confrontati durante la stesura di questa sezione, afferma: “A sostituzione del cemento come materiale di costruzione delle strutture pulito si è pensato molto, e c’è stata tutta una storia, anche molto lunga, che parte negli anni 80’ e si dà forza con la nascita dell’edificio leggero, pensato in metallo” Il cemento infatti a differenza del metallo è particolarmente difficile da riciclare, soprattutto perché richiede una completa demolizione. “Questo è uno dei grossi problemi del cemento. Se io demolisco un edificio in cemento ci posso fare un manto autostradale… poi però quante altre strade dovrò fare per togliere tutto il cemento che abbiamo?”. Dal dopoguerra ad oggi si è costruito molto, e in cemento, spesso senza vincoli, e alternative non sono mai state realmente prese in considerazione, fino a che i cambiamenti climatici non sono divenuti un problema evidente. “Oggi il legno è visto un po’ come il materiale sostenibile, ora anche il legno come tutto ha dei problemi, perchè dipende come lo usi, chi lo produce, chi lo monta e come lo monta”, conclude la Tonelli. Ovviamente stiamo parlando di legno certificato, preso in appositi luoghi. La sfida infatti starà anche nell’utilizzare materiali giusti nel posto giusto, e quindi sicuramente non abusando del cemento per proteggere logiche produttive, quando questo può essere sostituito dal legno o da altri materiali con minore impatto ambientale.

Articolo di Luca Giordani, Lorenzo Cirino, e Chiara Falcolini