Il significato geopolitico del viaggio di Bergoglio in Iraq

Perché non è un semplice pellegrinaggio, ma qualcosa di più

09/06/2021

Bergoglio sceglie di fare questo viaggio in Iraq in un momento logicamente complicato, che vede il mondo in ginocchio per la pandemia. Un periodo instabile e insicuro in un Paese altrettanto complesso come l’Iraq da anni ormai diventato terreno di scontro tra Stati Uniti ed Iran (visita avvenuta pochi giorni dopo il primo raid in Siria, delle forze americane, dall’elezione di Biden), dilaniato anche dalla presenza dei miliziani baghdadisti; la crisi economica dovuta al calo della domanda di petrolio e dei prezzi; le proteste riprese contro una classe politica che fatica a fare riforme e infine il Covid-19 e una campagna vaccinale distante dall’essere efficace. Viaggio ricco di numerosi rischi che dimostra inoltre la grande efficienza dell’apparato diplomatico della Santa Sede, da molti spesso messo in discussione. 

Passato in sordina all’opinione pubblica l’incontro con Al-Sistani – voluto fortemente da Francesco – rappresenta il punto cardine della sua spedizione. Il Papa sceglie questo interlocutore per riaffermare la necessità di un dialogo interreligioso costante sottolineando il concetto che la religione non debba diventare strumento politico. Al-Sistani, infatti, è una figura particolare in quanto parte della grande tradizione sciita che ha sempre distinto nettamente la politica dalla religione. Pare che il suo motto sia: “niente turbanti al Governo”. Sin dall’inizio ha sempre separato queste due dimensioni, la cui coincidenza nella storia ha creato numerosi conflitti. E ha puntato all’armonia sociale della società irachena, che mettesse insieme le differenze, e in questo le due guide spirituali hanno una visione comune. È così che questo colloquio non si trasforma in un semplice atto formale: Francesco I è stato determinato a raggiungere il posto per “portare a casa” un risultato che non fosse solo la classica foto-testimonianza. Altro particolare significativo è come il Papa si sia recato proprio a Najaf: avrebbe potuto incontrarlo a Baghdad, la capitale, e ha invece deciso di raggiungere l’ayatollah proprio nella città santa dei musumlmani sciiti e nella sua abitazione. Intriso di simboli anche il momento del loro saluto ufficiale: lo sciita per la prima volta non ha accolto il suo ospite da seduto, ma si è alzato per far accomodare il Pontefice su un divano blu, mentre il Papa si è tolto le scarpe entrando. Bergoglio riconosce Sistani come interlocutore: in una lettura geopolitica questo significa dare riconoscimento alla tradizione di Najaf, con l’intento di creare un vero e proprio ponte diretto con la loro cultura, ben diversa da quella khomeinista sviluppatasi in Iran. Sistani ha un enorme potere in Iraq, è una personalità riconosciuta di altissimo livello che riesce spesso a mobilitare la popolazione essendo molto apprezzato. Si è diverse volte esposto contro le interferenze iraniane nel Paese, interferenze che la Repubblica islamica muove attraverso i partiti sciiti, protagonisti anche recentemente di azioni di guerriglia contro gli occidentali. Sistani ha criticato questo gioco di influenza di Teheran, sostenendo anche le richieste avanzate durante le proteste popolari nelle quali gli iracheni chiedono al governo e alle istituzioni di concentrarsi maggiormente sui problemi del paese e di sganciarsi da questo genere di sussidiarietà.

Tappa cruciale del pontefice è stata anche Mosul, ex roccaforte dell’Isis. Le rovine della città testimoniano la violenza esercitata dai fondamentalisti islamici che hanno puntato alla distruzione di una delle cose più preziose che Mosul aveva: la natura multietnica, radendo al suolo numerose chiese, cancellando e imbrattando i volti sacri raffigurati sulle mura. Il Papa ha deciso infatti di pregare a Hosh al-Bieaa, la piazza delle quattro chiese, distrutte dai jihadisti intolleranti nei confronti della minoranza cristiana lanciando un messaggio di rinascita: «Il terrorismo non ha mai l’ultima parola», nello stesso luogo in cui nel 2014, venne proclamata la nascita del califfato. Il Papa con queste frasi simbolicamente riporta la pace in uno spazio in cui l’Isis aveva annunciato la crociata contro l’Occidente ed esplicitato la volontà di impadronirsi del Vaticano. 

La chiara instabilità della regione ha reso questo viaggio tra i più pericolosi che Francesco ha compiuto in questi anni. L’Iraq, infatti, è diventato lo scenario principale dello scontro a distanza tra Washington e Teheran. Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, è stata colpita, lo scorso 15 febbraio, da un attacco missilistico. Secondo alcune fonti, tra cui il quotidiano al-Arabiya, l’attacco è stato condotto da un gruppo chiamato Saraya Awlia al-Dam contro una delle basi militari statunitensi. Nella stessa Erbil attaccata meno di un mese prima, il pontefice ha celebrato la Messa prima del ritorno a Roma. Nello stadio della città, gremito di fedeli, Francesco ha affermato: «Chiedo a tutti voi di lavorare per un futuro di pace e prosperità che non lasci indietro e non discrimini nessuno, indipendentemente dal suo credo». Il suo invito alla ricostruzione soprattutto nei confronti dei giovani: il 40% della popolazione ha infatti meno di 40 anni.

 

Il viaggio negato a Giovanni Paolo II

La missione di Francesco si colloca nella linea di Papa Wojtyla, il quale voleva visitare la terra di Abramo già in occasione del giubileo del 2000, ma fu costretto a rinunciarci in quanto impedito dal veto incrociato di Baghdad e Casa Bianca. Il Santo Padre polacco, per quanto storicamente riconosciuto come Papa fortemente “occidentale”, è stato uno strenuo oppositore della guerra all’Iraq voluta da George W. Bush in alleanza con Blair, e nel 2003 contrastò attivamente l’attacco di Bush motivato dall’affermazione falsa che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa.  Il papa polacco mobilitò la diplomazia vaticana in tutto il mondo, riunì intorno a sé le principali Chiese, si attivò perché Stati cattolici come il Messico e il Cile impedissero nel Consiglio di sicurezza dell’Onu il formarsi di una maggioranza a favore dell’intervento del presidente degli USA. Questa mobilitazione ebbe un forte impatto di ordine morale e spirtuale, affermando la sua autorevolezza in tutto il mondo, cattolico e non. Su questi passi Bergoglio è andato oltre le parole di Wojtyla, il quale sosteneva che l’Islam non dovesse diventare il “nemico” per eccellenza nel XXI secolo, sancendo un patto di fratellanza fra cristianesimo e islam. È avvenuto con il grande imam di Al Azhar, centro spirituale dei sunniti, con il presidente-teologo sciita iraniano Rohani e il leader sciita Al-Sistani: la pace si costruisce step by step.

 

L’importanza oggi del dialogo interreligioso

«Non si può oggi, nel XXI secolo, pensare di non costruire pace, unità e fratellanza attraverso il dialogo interreligioso», spiega a Scomodo Nadia Matarazzo, docente di Geografia economica e politica presso l’Università di Basilicata e l’Università Federico II di Napoli ed esperta di Medio Oriente. «La riaffermazione delle due sfere – politica e religione – quindi il principio di separatezza, è necessaria dal punto di vista comunicativo visto il dilagare del fenomeno terroristico islamico degli ultimi anni, ma d’altro canto in questa fase storica, iniziata nel 2001, risulta imprescindibile il dialogo interreligioso». La prof. Matarazzo rimarca il valore transcalare di questo viaggio che racchiude tanti possibili sviluppi: sul fronte cristiano ha una valenza fortemente simbolica, per supportare una comunità, decimata da anni di persecuzioni da parte dei jihadisti dell’Isis che ha visto più di un milione di cristiani fuggire dall’inizio dell’invasione dell’Iraq. Attualmente i cristiani in Iraq sono una netta minoranza: circa l’1.5% della popolazione composta da 39 milioni di abitanti. «Non si può negare che questo percorso intrapreso da Francesco preveda un’andata senza ritorno; un gesto epocale di apertura che traccia un cammino in cui tornare indietro sarebbe antistorico e controproducente» sottolinea la professoressa, che inoltre evidenza come le tante azioni del Papa facciano evincere quanto sia disposto a mettere in gioco l’immagine della Chiesa in un momento così delicato. Denuncia poi come il valore di tutto ciò sia passato inosservato alla stampa e ai media, intenti a trattare il viaggio nella solita veste di “photo opportunity”, invece di documentare la forza con cui molti gesti simbolici sono stati compiuti.

Sul fronte musulmano, invece, «la criticità è per chi seguirà Al-Sistani, che ritroverà un fardello non indifferente. Soprattuto, ci sarà qualcuno in grado di tornare su questi passi, in un Paese dalla forte incertezza geopolitica? Quando si parla della cultura sciita è molto complicato decifrare eventuali sviluppi futuri, poiché il ruolo del capo è molto influente sulla persona». Spuntano però commenti positivi anche dal mondo musulmano, a distanza di qualche giorno. Sayyed Jawad Mohammed Taqi Al-Khoei, segretario generale dell’Istituto Al-Khoei di Najaf, esponente di spicco del mondo sciita iracheno e direttore dell’Istituto Al-Khoei che fa parte dell’Hawza di Najaf, un seminario religioso fondato quasi mille anni fa per gli studiosi musulmani sciiti, si è espresso più volte con favore a proposito del viaggio.

«Sebbene questo sia il primo incontro nella storia tra il capo islamico sciita e il capo della Chiesa cattolica, questa visita è il frutto di molti anni di scambi tra Najaf e Vaticano e rafforzerà senza dubbio le nostre relazioni interreligiose. È stato un momento storico anche per l’Iraq». Al-Khoei ha affermato l’impegno a «continuare a rafforzare le relazioni come istituzioni e individui. Presto ci recheremo in Vaticano per assicurarci che questo dialogo continui, si sviluppi e non si fermi qui. Il mondo deve affrontare sfide comuni e queste sfide non possono essere risolte da nessuno stato, istituzione o persona, da soli».

Il messaggio e l’obiettivo finale di questo viaggio che ha avuto una forte connotazione politica e sociale, oltre che religiosa, è quello di sancire un patto di pace, rispetto reciproco tra tutti gli esseri umani e tutte le fedi che questi professano.

Articolo di Andrea Carcuro