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Llaika: un viaggio post covid tra i luoghi della cultura indipendente – terza tappa
Che Ci Fanno Tanto Divertire è il primo progetto del collettivo Llaika.
Katerina, astrologa in erba, si diletta leggendo gli astri accompagnata dal suo levriero irlandese. Barbara, che nelle notti di luna piena resuscita rondini e imbastisce Sabbath con un fornelletto da campeggio. Esther, pilota adrenalinica e irosa, semina il panico alla guida della sua astro-fiat gialla. All’attivo, solo inesperienza punk e fanatismo astrologico. Questo è Llaika.
Per la sezione online di Scomodo, Llaika scriverà una serie di racconti a tre mani che riporteranno, oltre alle parole degli intervistati, le impressioni, gli stimoli e gli imprevisti di un viaggio improvvisato, nato dal desiderio di testimoniare le possibilità della cultura come pubblica risorsa fuori dal mercato dell’intrattenimento. Un’indagine territoriale sugli adeguamenti attuati dalle lavoratrici e dai lavoratori della cultura e dello spettacolo durante l’emergenza Covid19 che assume la forma di un viaggio in automobile a tappe iniziato da Venezia e terminato a Catania, alla ricerca di librerie, spazi espositivi, realtà musicali, performative e luoghi di produzione artistica.
Due erano le cose chiare: la durata massima del viaggio doveva essere di trenta giorni, il documentario e i racconti scaturiti dal viaggio avrebbero dovuto seguire un percorso non geografico ma tematico. E’ secondo questo principio che spazio per spazio abbiamo disegnato la nostra traiettoria.
Terza tappa: Luoghi dell’arte sperimentale
‘…Sono sospese le mostre e i servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio…’.
Così recita il nuovo dpcm in vigore fino al 3 dicembre. Molte voci si sono levate contro il presidente Conte e il suo ‘colpo di grazia alla cultura’, che di nuovo si trova depotenziata del suo valore e ruolo sociale, ritenuta non indispensabile, condannata a vivere (e a morire, a volte) come spalla destra del turismo di consumo. Non si tratta di discutere o meno le misure di sicurezza statali (che tutte le attività culturali che hanno riaperto a maggio avevano già adottato), piuttosto di constatare la ristrettezza delle contromisure che il governo ha intrapreso a sostegno del settore culturale, come i fondi EXTRA FUS e il decreto ‘Rilancio’, dai quali moltissimi sono tagliati fuori, e i danni che ne deriveranno. Ma la reazione dei luoghi d’arte indipendente all’inadeguatezza delle tutele non mancherà di essere, com’è stata quest’estate e come troppo spesso si da per scontato debba essere (a prescindere dalle risorse), innovativa e coraggiosa.
La torretta telemetrica di MetaForte sorge a pochi minuti a piedi dall’imbarcadero di Punta Sabbioni, nella laguna veneziana. Ai suoi piedi, uno spettacolo surreale alla Lewis Carroll: una serie di installazioni antropomorfe decorano il giardino, un pino fa ombra a un vecchio pianoforte rotto, mentre un lampadario pende dai rami di un grosso albero di fichi. Una compagnia in residenza fa le prove, accompagnata nei suoi movimenti da un Orso di due metri scolpito nel legno.
All’ingresso, ci accoglie Oscar Valenzin con il resto dell’associazione di MetaForte, che dallo sfratto subito a Forte Vecchio nel 2017, ha continuato le attività di esposizione e di residenza grazie all’assegnazione di questo nuovo spazio da parte del comune.
Quando ormai il sole sta per calare e la frenesia dei lavori in corso è diminuita ci raggiungono anche Mariarosa Vio e Cosimo Ferrigolo, che ha appena finito di tagliare l’erba del prato. “È importante che tutti imparino a fare un po’ di tutto”, ci dice. “La cosa bella è che qui non siamo solo artisti, siamo anche artigiani, giardinieri, muratori”.
Una volta seduti ci spiegano come negli anni, attraverso il restauro e il recupero degli spazi, le periferie della laguna si siano rivelate i luoghi più adatti al fare. Organizzare eventi culturali che provengono dal basso è rimasto possibile quasi esclusivamente grazie al dialogo con il comune di Cavallino Treporti. Venezia infatti, da un po’ di tempo ormai, soffre di carenza di spazi di produzione artistica: “è satura, è una vetrina”- ci dice Mariarosa. Mancano proprio dei luoghi dove le compagnie possano provare, o dove banalmente si possa organizzare un’esposizione, “c’è talmente tanto di già istituzionalizzato che non è più possibile portare nulla di nuovo”.
Da quando è finito il lockdown, MetaForte sta cercando di recuperare il lavoro perso, usando questo momento di stallo per riflettere su come distribuirsi in maniera più continuativa sia sul territorio che nel tempo e arrivando a immaginare anche un flusso di eventi dalla durata prolungata, che si estenda a tutto l’anno. Anche se la maggior parte delle attività del forte vengono ospitate all’esterno, nel grande giardino, e quindi in inverno non possono essere garantite, e il lavoro di restauro a cui si stanno dedicando amici e volontari è ancora lungo e molto complesso. “Per costruire qualcosa ci vuole tempo, ci vogliono anni” e la situazione purtroppo è ancora precaria.
Precarietà che ci fa pensare a come il nostro sistema sia ancora molto diffidente nei confronti di attività culturali di questo genere. È sempre più difficile trovare persone che credono di potersi fermare e mettere radici in un luogo. “Siamo abituati a pensare che se qualcosa non funziona allora è necessario spostarsi. Noi siamo la prova che non deve essere per forza così”.
Rientriamo a Venezia col Vaporetto serale, godendoci la brezza marina che regala la laguna. Il cielo è nuvolo e la luna compare solo ogni tanto nel riflesso dell’acqua, eppure abbiamo quasi la sensazione che stia viaggiando con noi.
Metaforte
Arriviamo in via del Porto 11/2 e ci stendiamo sul parquet di un enorme spazio su cui troneggiano dei cubi a forma di lettere. Siamo al DAS, realtà nata da una proposta del comune per la riqualificazione e la rigenerazione di uno spazio fruibile dalla comunità, ricavato dal restauro di un ex-magazzino incastonato nel tessuto urbano di uno dei quartieri più culturalmente attivi di Bologna.
Carolina Guardabascio e Federica Amatuccio, socie del collettivo, ci presentano il DAS, Dispositivo Arti Sperimentali, come uno spazio caratterizzato dalla forte permeabilità e flessibilità spaziale, che si riflette nell’interdisciplinarietà delle sue produzioni artistiche. Hanno scelto il termine “dispositivo” prendendo ispirazione dal saggio di Agamben ‘Che cos’è un dispositivo?’, per delineare uno spazio-contenitore di attività eterogenee messe in dialogo tra di loro. Scopriamo subito che non esiste un consiglio direttivo, ma sono presenti una serie di gruppi multidisciplinari che lavorano insieme e spesso realizzano eventi in contemporanea, agevolati dalla struttura architettonica polifunzionale del luogo. Il DAS, con le sue peculiarità e i suoi difetti, appare così un luogo in continua trasformazione come la comunità che lo abita e lo gestisce.
Durante il congelamento, lo spazio è rimasto totalmente chiuso come tutte le altre realtà bolognesi, non avendo alcuna possibilità di strutturare attività dedicate al pubblico. “La cosa difficile è stata fare un po’ di chiarezza su che cosa potessimo e dovessimo fare. In quanto realtà appena nata, sentivamo la responsabilità nei confronti della cittadinanza, del territorio, delle persone che hanno vissuto e vivono DAS’’. Ci parlano dell’importanza di appartenere ad una “rete di supporto” come quella Arci, uno dei primi agganci, grazie ad una rete sul territorio nazionale, in cui era possibile essere d’aiuto e sentirsi aiutati. In particolar modo per “non cadere nella produzione forsennata e senza tempo, cadere appunto nell’essere solo consumo”, ed evitare di essere luogo di intrattenimento o contenitore dentro a cui vengono solo fatte delle cose.
Il novilunio nasconde la luna al nostro sguardo sentimentale, ma noi le rendiamo lo stesso omaggio cantando in macchina a squarciagola una versione stonata di Loredana Bertè, E la luna bussò, mentre viaggiamo verso il sud.
Intorpidite dal primo pranzo napoletano del viaggio, scendiamo verso Spaccanapoli alla ricerca della casa di TeatrInGestazione, dove Anna Gesualdi e Giovanni Trono ci hanno promesso un caffè “con crema”, ghiottoneria locale. Con loro parliamo di Altofest, di teatri chiusi, di Deleuze. La loro parlantina napoletana ci ipnotizza al punto che ci rendiamo conto di aver perso il controllo dell’intervista, e la cosa ci diverte.
Negli anni, studiando il dispositivo Altofest, Anna e Giovanni si sono resi conto di come l’abitare cambi lo spazio. “Altofest, non è solo il festival delle case, è un ambiente di contaminazione tra il quotidiano e il poetico”, dove i cittadini mettono la propria casa e le proprie cose a disposizione degli artisti che accolgono, stabilendo per due settimane – tempo necessario allo sviluppo di una familiarità fra l’ospite e l’ospitante – una relazione di coabitazione. Come a teatro, in cui ci affidiamo al tempo stabilito da qualcun’altro, ad Altofest ci si affida all’atto di coabitazione, cercando di sopravvivere alle dinamiche che il dispositivo mette in atto: ‘si cammina tantissimo e si sta schiacciati in una casa in venti per vedere una performance’.
Durante l’emergenza, raccogliendo delle telefonate dei cittadini nel programma radiofonico, “Voci dalla Città Sospesa”, Anna e Giovanni realizzano che, per non tradire la natura del festival, quello che possono fare è continuare a lavorare sul suo processo di costruzione, condividendo con il pubblico questo periodo di incertezza e coinvolgendolo in riflessioni sulla geografia dei corpi che convertano la distanza in prossimità e attesa.
Scegliendo di non organizzare un calendario di eventi quanto piuttosto un ‘centro culturale diffuso’, il duo artistico dichiara al pubblico che Altofest, essendo un sistema vivo e in continua evoluzione, non si ferma anche se non potrà svolgersi nella forma-fesival. ‘È facendo così che si attiva un pensiero”.
Usciamo dopo quasi quattro ore di intervista un po’ stordite e interrogative. Le ultime parole di Giovanni sembrano rispondere in parte alla questione fondamentale del nostro viaggio: cosa vuol dire lavorare con l’arte e la cultura: “l’arte interviene perturbando l’inerzia della cultura e tutto ciò non è per nulla divertente”. Quindi cosa ci fa tanto divertire? “Viviamo nella parte più opulenta del mondo” ci dicono “ci dobbiamo anche divertire?”
Alziamo gli occhi al cielo. Ancora opaca nell’azzurro pomeridiano, una falce di luna crescente sembra rivolgerci un sorriso cinico.
Anna e Giovanni di TeatrInGestazione
Conclusa la tappa partenopea del viaggio, proseguiamo verso i mari della Calabria, dove iniziano ad accadere strani fenomeni che sembrano presagi. Fra ettari di boschi incendiati, cadaveri di animali selvatici, frane e bigliettai audaci che ci lasciano il loro numero di telefono sullo scontrino, riusciamo finalmente a sbarcare in Sicilia. Guidiamo dritto fino ad Alcamo, dove raccattiamo Leonardo Ruvolo che, in uno slalom fra strade sterrate e sottopassaggi, ci svela la via d’accesso alla piccola oasi chiamata Posto Segreto.
Si tratta della residenza d’artisti dell’associazione culturale Landescape, circondata dai campi della Green code Farm – azienda di agricoltura rigenerativa biologica e prima fonte di sostentamento di Posto Segreto – che sembrano sprofondare nel blu del mare all’orizzonte. Ci sediamo all’ombra degli alberi mentre Leonardo, fondatore dell’associazione insieme a Francesco, ci racconta della sua genesi. Landescape nasce nel 2015 prima come organizzazione di eventi culturali e poi come comunità nel territorio siciliano. Tutti i fondatori dell’associazione sono nati e cresciuti ad Alcamo, le motivazioni che sono alla base della decisione di radicarsi lì sono principi di vita di natura politica. “Noi non crediamo al ricatto del lavoro e dell’emigrazione al Nord, né al basare l’etica della propria vita su un posto di lavoro”. Agendo in primis attraverso pratiche culturali che dessero un senso di comunità, come l’attivazione di rituali per riconoscersi come collettività, hanno poi cominciato a stringere tra di loro accordi che regolarizzassero queste relazioni, dando vita a delle micro-istituzioni. Così hanno fondato Posto Segreto, percependo la necessità di uno spazio fisico che permettesse di incontrarsi, parlarsi, toccarsi, mangiare e lavorare assieme. Da qui, le possibilità di incontro si sono espanse fino a includere la questione alimentare.
Un processo a ritroso, quasi eziologico, partito prima come volontà di stare assieme, poi divenuto un’architettura di sopravvivenza e infine un’infrastruttura legale, con creazione di orti e di un sistema che permetta di non consumare prodotti che provengono dalla grande distribuzione. Durante il lockdown, non potendo proseguire con il lavoro culturale, è su questo punto che si sono focalizzati, dedicandosi alla coltivazione e alla manodopera esterna con materiali naturali come l’argilla, che hanno recuperato dal fiume e modellato nella costruzione di muretti, panchine, aiuole e oggetti in ceramica smaltata.
Chiudiamo la giornata accompagnando Francesco a raccogliere i prodotti dell’orto, che serviremo proprio in questi piatti di ceramica improvvisando una grande cena comunitaria. Ormai è buio, ma non c’è bisogno della torcia: la luna crescente brilla alta nel cielo.
Leonardo di Posto Segreto
Riprendiamo il nostro viaggio verso un’altra località celebre per il suo passato di microcriminalità organizzata: Favara. Prima di cominciare l’intervista, esploriamo le strade e gli ex complessi abitativi che ora compongono Farm Cultural Park. È difficile distinguere dove termini la città e dove inizi Farm, le due sembrano quasi diventate un’unica entità indissolubile. Rimaniamo stupite quando, percorrendo il quartiere Sette Cortili disseminato di opere scultoree e murales, incontriamo delle signore anziane che chiacchierano sedute sugli usci di quelle che scopriamo essere le loro case. “Loro sono le zie” ci spiegano i fondatori Andrea Bartoli e Florinda Saieva. Aggiungono che abitano lì da sempre e che fanno parte della cosiddetta famiglia ovvero la iper famiglia estesa e dilatata che, oltre a Andrea, Flo e i loro due figli, comprende Vito, un ragazzo meraviglioso e muscolosissimo che ha avuto qualche piccolo problema con la giustizia, pare che abbia menato 15 carabinieri tutti in una volta.
Figure mitologiche a parte, anche Florinda e Andrea condividono un passato peculiare. Circa dieci anni fa, dopo un “master esperienziale” a Parigi e con una bambina piccola, si ritrovano davanti ad un bivio: rimanere in Francia o tornare in Sicilia. In quel momento nasce Farm, ed è il loro dispositivo di compensazione. Un modo per far sì che in primo luogo i loro figli, ma anche loro stessi e la comunità della città, potessero vivere meglio a Favara. Incominciano comprando due lotti che restaurano e adibiscono a sale espositive. Proseguono a cascata una serie di riabilitazioni per ampliare la galleria, aprire una residenza d’artisti e organizzare laboratori di architettura, arti visive e attività per bambini. Intorno a loro sbocciano strutture ricettive da parte dei concittadini, impensabili prima di allora; dagli hotel e Airbnb ai ristoranti dove mangiare la pizza.
Il periodo di lockdown è stato piuttosto disteso, dovendo annullare tutti gli eventi della prima metà dell’anno, hanno avuto più tempo per rimodularsi, anche se il numero di conferenze, mediamente intorno alle 2-3 a settimana, sono aumentate a 5-6 grazie all’utilizzo di piattaforme digitali. Chi non ha giovato molto della smaterializzazione degli incontri sono state invece le zie dei Sette Cortili: hanno sofferto la solitudine loro imposta, che ha impedito loro di rivedere la propria farmiglia.
Trascorriamo l’ultima notte siciliana guardando la luna piena sorgere dal mare. Una lieve eclissi la tinge di una magnifica velatura rosata, addolcendo il nostro addio all’isola.
Florinda e Andrea di FARM
In questa rincorsa ai fondi statali, come sempre a rimetterci non sono i grandi musei e i teatri tradizionali, gli occhielli internazionali, a cui in verità conviene restare chiusi e non lamentarsi troppo, perché le entrate contingentate non coprirebbero i costi di apertura (struttura, servizi, operatori etc). A rimetterci sono gli spazi più indipendenti che svolgono un lavoro localizzato, ibrido, invisibile, i quali si ritrovano a dover scegliere fra il buon proposito di sottrarsi alla retorica della produzione a tutti i costi – rischiando di trovarsi soli e senza aiuti – oppure adeguarsi alla produzione di contenuti culturali online, contribuendo all’avverarsi di quello che il ministro Franceschini ha orgogliosamente nominato ‘Netflix della cultura’, nient’altro che un mercato meno sostenibile e più competitivo.
Quasi fosse un segno, il 30 novembre c’è stata l’ultima eclissi di luna piena dell’anno. Si dice che ció che accade in una notte di luna piena si ripresenterà anche nei pleniluni successivi. Così si moltiplicano anche gli addii. Quante altre cose avremmo voluto si eclissassero con lei, solo in questo 2020, nemmeno la luna lo sa.
Articolo di collettivo Llaika