Violare i diritti umani con la scusa di bloccare il contagio

Viaggio nei paesi dove i diritti umani sono stati calpestati o arbitrariamente sospesi e ignorati con la scusa dell'epidemia di Covid-19

Come accade per ogni evento di scala globale, la pandemia ha portato con sé conseguenze che non sono solo sanitarie ed economiche, ma anche legate al rispetto dei diritti umani. Sono state moltissime le irregolarità denunciate da associazioni come Human Rights Watch e Article 19 (che fa riferimento all’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani), la quale ha aperto una sezione dedicata appositamente all’impatto del Covid-19 sulla libertà d’espressione. Ciò che preoccupa non è certo il pericolo di “dittatura sanitaria” in Italia, quanto le violazioni riscontrate in altre parti del mondo, vicine e lontane. Esistono infatti Paesi dove le libertà che dovrebbero essere fondamentali (perlomeno secondo una visione europea) sono state calpestate oppure arbitrariamente sospese e ignorate. Secondo i dati di Human Rights Watch, in 83 Paesi il governo ha sfruttato la pandemia come pretesto per giustificare violazioni della libertà di parola e di associazione. In 51 Paesi, invece, delle leggi per contenere la pandemia sono state utilizzate per arrestare o multare arbitrariamente chi ha criticato l’operato del governo. Nella maggior parte dei casi, questo ha avuto luogo seguendo un trend iniziato in precedenza e che la pandemia ha velocizzato o legittimato. 

 

Ungheria

Una parola di troppo

Non è necessario spostarsi nemmeno fuori dai confini dell’Unione Europea per incontrare uno Stato che, in seguito a scelte ben calibrate, stia sperimentando al suo interno una pericolosa diminuzione della libertà di stampa, di espressione e dei diritti in generale. In Ungheria, dove il primo ministro Orban ha portato la nazione dal 23° posto del 2010 – anno dell’insediamento – all’89° del 2020 nella classifica, pubblicata ogni anno da Reporter Senza Frontiere, che tiene conto dell’indice della libertà di stampa (passato da 7,50 a 30,84), la pandemia è stata l’occasione perfetta per intensificare la deriva accentratrice e autoritaria.

Nella primavera del 2020, l’esecutivo di Orban ha introdotto delle misure di contrasto alle “fake news”, facendo riferimento alla supposta disinformazione relativa all’emergenza sanitaria, con pene che potevano arrivare fino a cinque anni di carcere. I giornalisti hanno ovviamente accolto queste misure come l’ennesima minaccia alla loro libertà di espressione e come un vero e proprio atto intimidatorio dell’esecutivo nei loro confronti. Le conseguenze non sono tardate ad arrivare e nel maggio dello scorso anno c’è stato il primo fermo di un oppositore politico. János Csóka-Szűcs è stato infatti detenuto e interrogato in seguito a un post Facebook critico della gestione della pandemia di Orban. Egli aveva sostenuto, giustamente, che il governo avesse allontanato forzatamente dagli ospedali i pazienti non affetti da Covid-19 per fronteggiare la nuova emergenza. Questo è stato possibile proprio grazie a una interpretazione molto larga della suddetta legge contro la disinformazione. Nello stesso mese, il Guardian ha evidenziato come fossero già quasi un centinaio le indagini avviate in accordo alle nuove stringenti leggi.

L’emergenza Covid è arrivata dunque al momento più opportuno, dando a Orban la scusa perfetta per portare avanti il suo disegno autoritario tramite la sedicente legge anti fake-news e i decreti, esenti da controllo giuridico e parlamentare. Inoltre, è riuscito a ottenere, come permesso dalla legge ungherese in casi eccezionali, “pieni poteri”, che gli permettevano di governare tramite decreti per un tempo illimitato. La revoca di tale concessione da parte del parlamento in seguito alle proteste interne e internazionali non ha impedito al governo di continuare sulla sua strada e promulgare decreti anche non inerenti allo stato di emergenza sanitaria, volti soprattutto a contrastare le opposizioni a livello locale.

È in situazioni come questa – dove la democrazia e la pluralità di opinione sono considerate un ostacolo da rimuovere – che l’Unione Europea non può più tirarsi indietro, per evitare che la pandemia favorisca l’ultimo e decisivo assalto di Orban alla libertà di espressione.

 

Uganda

Due piccioni con una fava

In Uganda, il presidente Yoweri Museveni, in carica dal 1986, ha usato le restrizioni per il Covid-19 come un pretesto reprimere lotte a cui già da decenni cerca di togliere ossigeno: la comunità LGBT e l’opposizione politica.
Il 29 marzo a Kampala, la capitale, è stato effettuato dalla polizia un raid presso un rifugio per i senzatetto della comunità LGBT: Human Right Watch riporta che 20 senzatetto sono stati arrestati con l’accusa di “un atto negligente che è probabile diffonda l’infezione della malattia [Covid-19, ndr]” e “disobbedienza agli ordini legali”. Non è la prima volta che la comunità viene presa di mira. Già nell’ottobre del 2019 le autorità ugandesi avevano effettuato degli arresti immotivati a persone per via del loro presunto orientamento sessuale e ne avevano sottoposti 16 a un ancora più immotivato esame anale senza nessun reale interesse medico. Tutto ciò ovviamente prende i connotati di una punizione umiliante, in linea con la posizione del governo.

Come se non bastasse, da quando Museveni è entrato in carica nel 1986, le denunce di brogli, frodi e violenze durante le sue campagne elettorali sono state numerose. La pandemia ha rappresentato ancora una volta un ottimo pretesto per agire apertamente in modi che, in tempi normali, sarebbero illegittimi. Alle elezioni presidenziali che si sono tenute nel gennaio di quest’anno, Robert Kyagulanyi, musicista e politico popolarmente noto come Bobi Wine, ha deciso di candidarsi contro il presidente uscente. Tuttavia, Kyagulanyi è stato arrestato dalle forze di sicurezza il 18 novembre, due mesi prima delle elezioni. Il fatto incriminante è stata l’organizzazione e la partecipazione a una manifestazione elettorale programmata: un evento che, stando alle autorità, avrebbe favorito la diffusione del virus. Le forze dell’ordine hanno utilizzato gas lacrimogeni e armi, provocando la morte di 16 persone.
Nello stesso giorno è stato arrestato anche un terzo candidato, Patrick Oboi Amuriat. Prevedibilmente a trionfare alle elezioni è stato Museveni, attualmente al suo sesto mandato. Le denunce di Kyagulanyi riguardo brogli elettorali e metodi repressivi per arginare l’opposizione sono rimaste inascoltate. L’Uganda rappresenta solo uno dei tanti Paesi del mondo che hanno trovato nel virus un buon alleato per creare un clima di terrore e rafforzare le loro politiche e i loro metodi violenti: metodi di cui facevano uso anche prima, ma che ora sono legittimati dalla situazione di emergenza e dalla paura delle persone. Paura dovuta, a questo punto, tanto alla diffusione del virus quanto alle politiche del governo.

 

Singapore

Un contact tracing quasi perfetto

Singapore, come molti altri Stati, ha adottato un’applicazione – denominata TraceTogether – di tracciamento dei contatti. L’app in questione è in funzione dal 20 marzo 2020 ed è stata sviluppata dall’Agenzia per la tecnologia del Governo di Singapore in cooperazione con il Ministero della salute. Lunedì 4 gennaio di quest’anno, il ministro degli interni Desmond Tan, pronunciandosi in Parlamento, ha affermato, come riportato dalla BBC, che le informazioni ricevute attraverso TraceTogether possono essere impiegate “a scopo di indagine penale”. Il Ministro ha aggiunto che, altrimenti, “i dati di TraceTogether devono essere utilizzati solo per la ricerca dei contatti con lo scopo di combattere la situazione pandemica”. Se la seconda affermazione appare ovvia e scontata, la prima ha sollevato diverse preoccupazioni sulla privacy dei cittadini. In precedenza, il Governo aveva escluso che i dati sarebbero stati utilizzati per finalità diverse dal tracciamento dei contatti, come era anche riportato sul sito ufficiale di TraceTogether, ora aggiornato.

Il giorno seguente all’annuncio, il ministro Vivian Balakrishnan ha precisato che secondo il Codice di procedura penale (CPC) altri dati sensibili, oltre quelli di TraceTogether, “come registri telefonici o bancari vedono la loro privacy superata nel caso di indagini penali”, concludendo che “una volta che la pandemia sarà finita e non ci sarà più bisogno di rintracciare i contatti”, TraceTogether sarà abbandonata. 

In uno studio condotto da Blackbox Research, sondaggista indipendente con sede a Singapore, riportato nella newsletter “Guerre di Rete” di Carola Frediani – sull’andamento dei download dell’app a fine marzo 2020 – il 45 per cento delle persone intervistate non aveva scaricato l’app per timore che il Governo li tracciasse e per delle problematiche connesse al consumo della batteria. Al contrario, gli ultimi dati riferiscono che Tracetogether è stato scaricato da quasi l’80 per cento dei 5,7 milioni di abitanti, riporta l’agenzia di stampa Reuters il 4 gennaio 2020. Tuttavia, come riportato dall’OSAC – Consiglio consultivo per la sicurezza d’oltremare degli Stati Uniti – Singapore è tra gli stati più sicuri al mondo per quanto riguarda la sicurezza personale e delle infrastrutture. L’insistente domanda per cui il Governo abbia preso tale provvedimento riguardante il sistema di tracciamento si fa a questo punto ancora più impellente.

 

Covid-19 al centro, privacy a lato

Singapore è stato il primo paese ad avviare un’app di tracciamento per i contatti e, mentre veniva elogiato (inizialmente) per la sua efficienza, in Europa iniziavano le prime discussioni sulla privacy e sul modello centralizzato o distribuito. Singapore ha preferito il primo modello, più efficace nella gestione dei contagi, meno problematico e sicuramente capace di fornire agli epidemiologi informazioni più accurate sulla diffusione dell’epidemia. Il funzionamento è il seguente: dopo aver scaricato l’app, è necessario registarsi con un numero di telefono – salvato sul server del Ministero – e a ogni numero viene assegnato un ID temporaneo. Dopodiché, quando l’app è attiva (è consigliato di mantenerla sempre in funzione), inizia a scambiare dati con gli smartphone vicini attraverso il BLE (bluetooth low energy); quando un soggetto risulta positivo, vengono caricati sul server “centrale” tutti i contatti dei precedenti giorni. Il server, successivamente, esegue l’abbinamento dei vari identificativi e informa le persone che risultano a rischio contagio con una notifica sull’app. L’app non registra le posizioni degli utenti, ma solo i contatti e tutte le informazioni vengono criptate. Solamente il Ministero della Salute è in grado di passare dall’ID segreto al numero di telefono, se il tracciamento dei contatti lo richiede. Singapore, comunque, non si è limitato all’app per combattere la pandemia, ma agli inizi di giugno ha introdotto un token – un piccolo dispositivo portatile bluetooth – che ha lo stesso funzionamento dell’app. Esso è stato distribuito ai bambini sopra i 7 anni e agli anziani che non possiedono un cellulare. Per avere il token, i cittadini devono fornire il loro tesserino sanitario e un numero di telefono. Se una persona con il token risulta positiva al Covid, deve rivolgersi al Ministero della Salute per inviare la notifica ai propri contatti, poiché autonomamente il dispositivo non è in grado di comunicare attraverso la rete. Quando a giugno 2020 il token è stato introdotto, la reazione pubblica è stata animata, avvenimento raro a Singapore, considerando le statistiche del paragrafo precedente. É stata lanciata anche una petizione per contrastare l’uso dei token che, ad oggi, ha raggiunto 55mila firme su 75mila come obiettivo. 

 

Gli sviluppi futuri

Singapore ha riscontrato un basso tasso di contagi durante gli ultimi mesi, vedendo appagati gli sforzi per installare i vasti controlli di cui si è parlato fin qui. Uno strumento che ha reso ulteriormente efficace il tracciamento dei contatti è il sistema di SafeEntry, obbligatorio in tutti i luoghi di lavoro e attività commerciali dal 12 maggio 2020.

Attraverso la scannerizzazione di un codice QR generato dall’app (un’altra) SingPass Mobile – in funzione contemporaneamente con TraceTogether, ma con l’unica finalità di generare il codice – il sistema di SafeEntry registra le informazioni di ogni soggetto, tra cui il nome, il numero della carta d’identità e il numero di cellulare. SingPass Mobile rappresenta un precursore di quello che farà l’app TraceTogether. Difatti, sebbene TraceTogether e il Token siano già in grado di creare il codice QR, il governo deve attendere un alto tasso di download prima di vincolare l’uso dei sistemi di SafeEntry a TraceTogether e token, con la conseguente eliminazione di SingPass Mobile. L’uso di TraceTogether per il check-in nei luoghi pubblici non è obbligatorio per ora, come dichiarato dallo Smart Nation e Digital Government Office: SafeEntry vincolato a TraceTogether sarà implementato “solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di ritirare un token nei loro collegi elettorali”. Nonostante ciò, il sistema di check-in con TraceTogether sarà presto reso obbligatorio – scelta che era già stata annunciata a ottobre dal Governo per fine anno e poi posticipata – per chiudere un cerchio aperto quasi un anno fa. Tutto ciò solleva forti perplessità sul lato della privacy e della fiducia pubblica.

 

Sgretolamento della fiducia pubblica

Il 18 febbraio 2021 su Twitter, il capo dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato di aver parlato con il ministro della Sanità di Singapore e si dice colpito degli sforzi che la città sta compiendo per interrompere i contagi. Non è la prima volta che l’Oms elogia Singapore per la gestione della pandemia, segnale che l’aver alterato le regole sulla privacy, non ha mutato altrettanto l’opinione dell’organizzazione. Anche gli epidemiologi di Harvard, a inizio pandemia, avevano elogiato Singapore, lodandolo di aver realizzato il “gold standard del rilevamento”. Singapore si posiziona undicesima tra le città più sorvegliate al mondo, con un rapporto di 15 telecamere ogni 1000 abitanti; inoltre, le informazioni governative arrivano da molti più canali ai quali siamo abituati: oltre ai siti istituzionali, sono utilizzati sms e messaggi su WhatsApp gestiti da account governativi. Le informazioni procedono di pari passo con i cittadini, e un sondaggio della società di contabilità KPMG nel 2016 ha evidenziato che, a confronto di altri cittadini asiatici, i singaporiani si percepiscono più insicuri sulla gestione e utilizzo delle le loro informazioni personali da parte delle organizzazioni e delle aziende. Molti cittadini hanno manifestato di essersi sentiti traditi e altri che vorrebbero eliminare l’app, riporta la BBC, ma non lo fanno perché la vita quotidiana diventerebbe più difficile. Il primo ministro Lee Hsien Loong ha dichiarato che i timori per la privacy devono essere valutati prendendo in considerazione la necessità di frenare la diffusione del virus per mantenere l’economia viva. Siamo di fronte a un paradosso: più controlli, maggiore libertà. 

Il rischio di erosione della fiducia pubblica rimane, considerato il rapporto fiduciario tutt’altro che stabile tra cittadini e Governo. Il dietrofront sull’uso dei dati di TraceTogether potrebbe, infine, essere controproducente, spingendo a una minore adozione del programma di tracciamento dei contatti e quindi minando il sistema di rilevamento, ad ora, quasi perfetto.

 

Questo articolo è un adattamento dell’approfondimento Testare, tracciare, trattare che potete trovare sul numero 39 di Scomodo abbonandovi qui.

Articolo di Nicolò Benassi, Emanuele Di Casola, Olimpia Peroni e Luca Zucchetti