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La violenza non va in lockdown
Aumenta la violenza domestica anche in Italia mentre i centri antiviolenza sul territorio nazionale continuano a fornire assistenza e accoglienza con nuove modalità.
I centri non ti lasciano a casa
«Quando si subisce violenza, si vive l’esercizio di un potere. Quando si ha un pensiero autonomo, quando si compie un gesto che non rientra negli ordini di chi esercita il potere, si viene punite».
È così che Sara Pollice, operatrice della cooperativa sociale BeFree contro tratta, violenza e discriminazioni, riassume la violenza domestica, che secondo l’ultima indagine Istat copre il 90,2% delle casistiche.
A causa dell’impossibilità di ascoltare le testimonianze delle donne direttamente coinvolte, abbiamo conosciuto meglio alcune realtà che ci hanno raccontato di loro.
Abbiamo parlato con D.i.Re – “Donne in rete contro la violenza”, rete che copre i centri antiviolenza di 18 regioni d’Italia e che, per questa sua caratteristica, offre assistenza e accoglienza alle donne su quasi tutto il territorio nazionale. BeFree, cooperativa sociale attiva dal 2007 che gestisce sportelli e case rifugio. Infine, la Casa delle donne Lucha Y Siesta, realtà locale che pone le sue radici in un centro occupato di Roma e che si definisce un progetto ibrido tra una casa rifugio, una casa di semiautonomia e un centro antiviolenza.
Affidarsi ad un centro antiviolenza significa sempre intraprende un percorso che ha come obiettivo il raggiungimento dell’autonomia e dell’autodeterminazione della donna. È un cammino di costruzione comunitaria tra operatrici e donne assistite il cui iter, per ognuna, varia a seconda della situazione particolare portata come emergenza all’interno del centro. Il primo passo, in ogni caso, è il colloquio di accoglienza che, come ci spiega l’Associazione D.i.Re – «deve essere strutturato in tre momenti: primo, la raccolta della storia della donna. Secondo, la valutazione del rischio: un set di domande molto precise per comprendere la gravità della situazione, definire il tipo di violenza e agire di conseguenza. Terzo, costruire i primi mattoni dell’autonomia affinché la donna sia in grado di slegarsi dall’attuale situazione e iniziare a percorrere una strada alternativa».
Anahi Mariotti, operatrice di Lucha y Siesta, precisa durante la nostra intervista telefonica che tutti i centri antiviolenza sono molto attenti a non chiamare mai “vittime” le donne che si rivolgono loro. Questo perché la dimensione dell’essere vittima non è totalizzante, anche se spesso la donna può sentirsi così. Si parla di relazioni, di complessità, non ci può essere solo la dimensione del male e del bene.
Durante l’attuale emergenza sanitaria, il lockdown ha investito, talvolta anche un po’ retoricamente, il significato di “casa” di un valore inedito per molti, sinonimo di riparo, di porto sicuro per scampare al virus. Non proprio per tutti, però. Perché, anche se nella stessa tempesta, nel mare ci sono imbarcazioni diverse, e ormai è evidente che il confinamento non è vissuto ad armi pari. In alcune barche non si sta bene.
L’appello delle scorse settimane di Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, si basava su dati allarmanti: In alcuni Paesi come la Malesia il numero di richieste di aiuto è duplicato, in altri, come la Cina, triplicato. In Europa la Francia ha reagito come l’Italia, con un brusco calo prima e un incremento (di più di un terzo) delle chiamate poi, mentre le case rifugio di Danimarca e Spagna sono ormai piene da settimane.
Nonostante l’incremento dei casi, i dati sulla violenza relativamente a relazioni affettive consolidate sono vertiginosi, anche in tempi non emergenziali. Secondo i dati Istat le forme di violenza più gravi sono esercitate da partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici, ma anche le violenze fisiche come schiaffi, calci, pugni e morsi sono per la maggiore opera di partner o ex. Ma oltre alla violenza fisica o sessuale le donne con un partner subiscono anche violenza psicologica ed economica, cioè comportamenti di umiliazione, svalorizzazione, controllo ed intimidazione, nonché di privazione o limitazione nell’accesso alle proprie disponibilità economiche o della famiglia. Nel 2014 sono il 26,4% le donne che hanno subito violenza psicologica o economica dal partner attuale e il 46,1% da parte di un ex partner.
Per quanto riguarda l’Italia di oggi, l’associazione D.i.Re, che ci ha aiutato con la sua testimonianza a tracciare il perimetro della nostra indagine, ha condotto una rilevazione statistica tra le 80 associazioni che aderiscono alla rete sparse per il territorio italiano. Dal 2 marzo al 5 aprile 2020 i loro centri antiviolenza sono stati contattati da 2.867 donne, di cui 806 (28%) non si erano mai rivolte loro prima. L’aumento di richieste di supporto è stato del 74.5%, rispetto alla media mensile rilevata nel 2018: dati che confermano quanto la convivenza forzata abbia acuito gli episodi di violenza. Tuttavia, ciò che preoccupa è il dato che riguarda le nuove richieste d’aiuto, solo 28% del totale delle donne accolte contro il 78% del 2018.
Tutte le operatrici contattate da Scomodo hanno concordato sul fatto che il calo delle richieste d’aiuto durante la prima settimana di lockdown fosse dovuto alla credenza che i centri antiviolenza fossero chiusi. Credenza alimentata dai vari DPCM, tutti privi di una menzione riguardante i centri. Questi ultimi, in realtà, hanno continuato ad essere un punto di riferimento che, come servizio essenziale, non ha mai smesso di operare nonostante le difficoltà.
Ovviamente per molte donne in questo periodo è diventato difficile anche chiedere aiuto. Se normalmente quasi tutti i centri mettono a disposizione il numero di antiviolenza e stalking 1522, garantendo una reperibilità h24, ed è sempre possibile recarsi di persona presso le strutture, adesso le reti delle associazioni hanno dovuto ‘adattarsi’ ed inventare nuove strategie comunicative.
Marnie S. invece, operatrice di D.i.Re, ci spiega: «noi abbiamo cercato, attraverso le pagine e gli account dei social, di consigliare delle piccole tattiche su come e quando chiamare, ad esempio: quando il partner è al lavoro, dorme o è sotto la doccia, oppure quando porta giù la pattumiera. O ancora far chiamare il centro da una persona terza, in modo che possa prendere informazioni su come lavoriamo e riportarle alla diretta interessata». Anche le istituzioni hanno cercato di fornire nuovi mezzi, come l’app YouPol, ideata per denunciare bullismo e spaccio nelle scuole e con la quale ora è possibile segnalare la violenza domestica attraverso la trasmissione di messaggi e immagini alla polizia.
Assistenza e criticità
Anche se i centri continuano a garantire assistenza, ciò non toglie, però, che l’emergenza sanitaria in corso ha spesso rallentato, e in molti casi posto delle barriere, al normale svolgimento delle attività assistenziali.
La prima chiamata che la donna fa al centro resta fondamentale: «Quando una donna chiama un centro, risponde sempre un’operatrice che facilita l’interazione: il primo approccio è molto importante. Spesso le donne chiamano e dicono di aver sbagliato numero: hanno bisogno di capire se il loro sentire, che sanno perfettamente essere violenza, può essere validato, poiché la società nega loro questa validazione», sono le parole della psicoterapeuta Luisanna Porcu, coordinatrice del centro antiviolenza Onda Rosa di Nuoro e segretaria nazionale di D.i.Re.
Normalmente si passa poi al colloquio socio-psico-legale. L’avvocata penalista Elena Biaggioni ha spiegato: «Il fatto che si pensi che la denuncia sia necessariamente il primo passo da fare è una distorsione narrativa. Meno conosci la dinamica della violenza più ti fossilizzi sull’immediato pericolo di vita, che pure c’è, ma che bisogna valutare. È necessario un percorso prima, ed è per questo che i centri antiviolenza hanno una importanza fondamentale».
E il primo vero percorso supportato da un’assistenza professionale che un centro antiviolenza offre, è quello psicologico. Ovviamente, gestire questo tipo di assistenza adesso è diventato complesso. «Ma come le donne si sono inventate nuove strategie per contattarci, noi ci siamo inventate nuove strategie di supporto». Queste le parole della psicoterapeuta Luisanna Porcu, che ci ha spiegato come i colloqui di supporto si siano trasferiti online in attesa di poter riprendere la psicoterapia di persona.
Concetta Gentili, avvocata civilista nel gruppo tecnico avvocate D.i.Re, ci confida che «a volte ci sarebbe il bisogno di fisicizzare l’incontro per far sentire la propria vicinanza o meglio, la propria “equi-vicinanza”, dato che siamo tutte donne e come tali non siamo esenti dal pericolo della violenza». Per ovviare al problema dell’impossibilità dell’incontro, dunque, le psicoterapeute dei centri hanno assicurato colloqui telefonici o via Skype e molte donne, nonostante le difficoltà, sono riuscite e riescono a ritagliarsi dei momenti di privacy per parlare nonostante le grandi difficoltà pratiche.
Anche per quanto riguarda il supporto legale e gli iter procedurali per querele o denunce, le cose sono – di necessità – cambiate. Se in tempi di “normalità” le donne intenzionate a denunciare dovevano prima rivolgersi alle avvocate del centro antiviolenza di riferimento, per poi essere messe in contatto con le procure che provvedevano all’avvio delle procedure (mediante previa firma delle documentazioni in originale), oggi la mediazione con la procura è interrotta. Il nuovo iter emergenziale, dunque, non prevede più la partecipazione diretta delle procure. Come ci spiega l’avvocata penalista Elena Biaggioni, ad oggi si è risolto in questo modo: «Noi avvocate forniamo la modulistica necessaria e indirizziamo le donne direttamente ai Carabinieri o alla Polizia, dove vengono depositate le denunce. In questo modo abbiamo un doppio effetto: primo, sensibilizziamo le Forze dell’Ordine distribuite sul territorio, le quali provvedono ad un più attento monitoraggio delle abitazioni segnalate. Secondo, permettiamo che l’azione legale della querela o della denuncia e il successivo procedimento penale venga attivato senza il bisogno di firme autentiche, impossibili da avere in questo momento».
Tuttavia, non va tutto sempre liscio come l’olio. La situazione infatti si complica per molte di quelle donne che, non essendo in contatto con nessun centro antiviolenza che medi nella relazione con le Forze dell’Ordine, si trovano a dover ovviare autonomamente alla denuncia. In questo caso entrano in gioco diversi fattori limitanti che vanno dalla semplice difficoltà nel rintracciare le pattuglie, al più serio problema della sottovalutazione del pericolo da parte di Polizia o Carabinieri stessi. Sempre l’avvocata Biaggioni, infatti, ci racconta che non di rado le Forze dell’Ordine fanno fatica ad accogliere le segnalazioni di aiuto di quelle donne sprovviste del ‘background’ assistenziale di un centro antiviolenza, perché, appunto, non in grado riconoscere il pericolo.
Questo gap informativo ci indica quanto le disposizioni presenti nella Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne siglata nell’aprile 2011 siano, per molti, ancora relativamente oscure. Gap che si estende anche alla cosiddetta Valutazione del rischio (in gergo S.a.r.a. – Spousal assault risk assessment), metodo canadese oggi adottato da molti paesi europei, per aiutare operatori, magistrati, ufficiali di polizia e altri professionisti a riconoscere i casi di violenza domestica a rischio di recidiva. Metodo su cui, purtroppo, la formazione è ancora generalmente bassa se non inesistente.
I centri, oltre che assistenza psicologia e legale, offrono un servizio di vera e propria accoglienza che continua a funzionare.
Durante l’emergenza sanitaria, tuttavia, l’accoglienza è più ostica: «il vero grande problema di questo periodo è che le case rifugio e tutti i sistemi di accoglienza sono pieni, e le donne non possono passare agevolmente da una struttura all’altra a causa del lockdown. In una città come Roma, secondo la convenzione di Istanbul, dovrebbero esserci 300 posti da poter offrire alle donne, quelli che ci sono realmente sono 40.», dichiara l’operatrice Sara Pollice.
La necessità di nuovi spazi per l’accoglienza si è tradotta nell’azione della Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese che ha così pubblicato, lo scorso 21 marzo, una circolare indirizzata alle Prefetture secondo la quale ogni territorio doveva impegnarsi a garantire strutture alberghiere per l’accoglienza delle donne richiedenti aiuto. Questa misura emergenziale di asilo, però, non ha riscosso particolare successo. In diversi casi le prefetture non sono riuscite a fornire dei luoghi di accoglienza idonei, in altri casi tali luoghi non assicuravano la piena sicurezza sanitaria e, infine, spesso si presentava il rischio che molte di queste strutture non garantissero al cento per cento la tutela della privacy delle donne che vi si recavano.
In ogni caso il vero problema, in questo momento, non è legato o meno all’apertura del centro o all’operatività delle lavoratrici, le maggiori criticità sono altre e riguardano le donne stesse, come ci conferma la stessa segretaria nazionale di D.i.re.: «Le difficoltà investono prima di tutto le donne che non riescono ad uscire: come si giustificano con il maltrattante che è in casa? A chi lasciano i bambini?». Spesso, tra l’altro, queste donne hanno un carico di cura molto grande che va oltre i propri figli, come nel caso di genitori anziani a cui badare, persone con disabilità. In questo modo, tutto diventa estremamente complicato.
Un problema di struttura
Andando oltre le criticità di vario genere sopra affrontate, quella fondante resta il quotidiano delle donne costrette a vivere la violenza: il partner che si amava è il mostro, la casa è la gabbia e la vera quarantena è stare chiuse in quelle quattro mura, ora come allora, Covid o non Covid.
Per questo motivo abbiamo chiesto quanto sia importante, per una donna, l’ascolto da parte di una professionista e Luisanna Porcu ci ha risposto così: «Anche se io non sono stata picchiata so perfettamente che esiste una società che rende possibile l’essere picchiate: lo sa il mio corpo, lo sanno le mie cellule. E questo sapere collettivo che noi conosciamo perfettamente lo utilizziamo all’interno della relazione e dell’ascolto tra donne: questa è ciò che io chiamo “psicoterapia femminista”, una psicoterapia che non prevede necessariamente il setting classico, bensì delle relazioni anche informali basate sulla condivisione della lingua comune che noi donne parliamo pur senza sapere di conoscere». Un ascolto dirimente, dunque, che possiede i suoi benefici prima di tutto perché privo di giudizi, poi, perché nasce e si sviluppa in un contesto in cui il sentire di chi ha vissuto la violenza può essere validato perché compreso davvero.
Di fronte al fallimento di un investimento affettivo – e rispetto alla violenza – tu donna non hai la solidarietà di nessuno, continua Luisanna. Di fronte a quella violenza, spesso, sei sola: “te la sei cercata” – sono le parole che riecheggiano tanto tra le persone, quanto nelle aule dei tribunali.
«La nostra difficoltà è portare la violenza nei tribunali e farla riconoscere come tale in un mondo che fino a pochi anni fa contemplava il diritto d’onore e lo stupro come crimine contro la morale e non contro la persona», conclude la sua intervista l’avvocata Gentili. Un mondo che oscurava il corpo e la mente delle donne, che autorizzava il matrimonio riparatore e riteneva ‘correttivo’ il potere del marito sulla moglie. Una cultura che è un fardello e che ha bisogno – ora, oggi – del suo opposto, controcultura. Quella della psicoterapia femminista, dei tribunali che discernono, dei libri che parlano, delle famiglie che collaborano, dell’attenzione al linguaggio, della salvaguardia della libertà. Tutto questo e altro ancora perché, altrimenti, la violenza contro le donne resterà sempre, incorreggibilmente, un problema di struttura.
Articolo di Francesca Asia Cinone, Cecilia Pellizzari e Carlotta Vernocchi