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Vita lenta: la romanticizzazione dell’ozio
Su Instagram e TikTok spopolano video dall’atmosfera idilliaca, taggati #slowliving. Gli influencer promuovono una vita naturale, il ritorno alla semplicità. Ma è davvero così?
Non c’è nessuna sveglia. Il suono che mi fa svegliare è il cinguettio degli uccelli. Rimango un altro po’ a letto a godermi la luce del sole, che arriva dalla finestra. Appena alzato, mi dirigo in cucina per farmi un bel pane e marmellata. Vengo accolto dai miei tre gatti, che aspettano di essere liberati nel giardino. Li lascio andare.
Dopo essermi lavato i denti, mi dirigo anche io in giardino dove raccolgo dei limoni: voglio farmi una limonata. Ne raccolgo cinque o sei, li spremo per bene, poi sciroppo di zucchero e acqua fredda. Le dosi che scelgo non sono mai perfette, ma mi piace così, ogni limonata ha il suo carattere.
Ne prendo un bicchiere e mi metto in giardino. Contemplo il retro, mi fisso in particolare su uno dei miei gatti che sta cacciando una non ben chiara preda.
Pranzo con delle uova e una leggera insalata.
Mi addormento subito dopo. Quando mi sveglio, mi metto le scarpe ed esco a farmi una passeggiata. Ad ogni passeggiata penso alla frase di Paul Bowles: «tutto accade un certo numero di volte, e un numero molto piccolo, in realtà. Quante altre volte ricorderai un certo pomeriggio della tua infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte del tuo essere che non puoi nemmeno concepire la tua vita senza di esso? Forse quattro o cinque volte di più».
Al mio ritorno, non trovo i gatti. Ritornano dopo poco, mentre sto finalmente leggendo le ultime pagine di Delitto e Castigo. La musica classica li fa ritornare sempre.
Per cena, mi preparo un pesce con il falò, lo riempio di pomodori ed erbe aromatiche e lo spennello di limone. Leggo un altro po’, mi faccio una doccia e vado a dormire.
La sveglia è precisa. Alle sette suona. Mi alzo, ho dormito bene, nessun sogno. Mi vesto, faccio una leggera colazione ed esco. Mi destreggio tra le persone che scendono alla mia stessa fermata, il palazzo è proprio di fronte alla pensilina. Arrivo a lavoro puntuale, alle otto e quindici. Il capo mi saluta in modo anonimo. Lavoro nel mio cubicolo, al computer per le successive cinque ore. Devo mandare qualche email. Poi alle tredici, esco per la pausa pranzo, ho deciso di non mangiare più grassi saturi e roba da microonde, così mi prendo un’insalata-to-go alla vicina catena. In coda con me ci sono tanti che mi assomigliano.
Mangio da solo, su una panchina della piazza che porta il nome del fondatore della società dove lavoro. Alle due rientro, sempre puntuale. I miei superiori hanno lodato questa mia qualità.
Nel pomeriggio, lavoro peggio, mando il bonifico per rinnovare il mio abbonamento alla palestra vicino a casa mia. Tre mesi. Finisco alle diciasette e trenta, saluto qualche collega, sembra che sia quasi diventato amici di alcuni di loro.
Vado ad allenarmi. Mi alleno tre volte a settimana. Dura un’ora, torno a casa e mi faccio la doccia.
Ordino la cena su un’app. Cinese. Finisco di cenare e metto su una serie, non la guardo per davvero, intanto controllo i prezzi del modello di macchina che vorrei comprarmi, magari usata posso permettermela. Ancora troppo alti. Spengo la serie. Metto un porno sul computer. Mi masturbo e mi addormento.
Fast life, slow movement
Slow living vs. Fast Life. Due stili di vita agli antipodi, attualmente in contrasto tra loro. Incastrati nel secondo, desideriamo la calma e la tranquillità del primo, facilmente rintracciabile nei feed della maggior parte degli influencer nell’ultimo periodo. Eppure la dicitura esiste già da molto: lo “slow movement” viene fondato nel 1986 da Carlo Petrini in seguito a una protesta indetta contro l’apertura del primo Mc Donald’s di Roma, quello a Piazza di Spagna. Il movimento si propone di contrastare l’andamento di una società sempre più veloce nei consumi, proponendo una via alternativa per l’appunto “slow”.
Trentasette anni dopo i Mc in Italia sono 610 e non è soltanto il cibo a esser “fast”, ma anche la nostra vita.
Dal 2018, grazie alla spinta data dal movimento Fridays Fur Future, la riflessione sull’impatto dell’uomo sullo sviluppo del pianeta è diventata centrale nel dibattito pubblico e lo “slow living” è tornato a godere di ampia popolarità, specialmente sui social.
Oggi, digitando “slow life” sulla barra di ricerca di tiktok si viene catapultati in un microcosmo costellato da video pressoché uguali tra loro: video dalla durata di 30 secondi in cui ragazze splendide appendono la biancheria, facendo stendere i vestiti all’aria aperta, reels di cucina in cui ci si barcamena tra la coltivazione dell’orto e la lievitazione del pane, video di home gardening in cui ragazze vestite in maniera impeccabile passeggiano soddisfatte tra le loro colture.
Le comunanze tra i video non sono poche, a partire dall’ ambientazione, raramente metropolitana, quasi sempre in luoghi di vacanza: eremi di montagna, borghi marittimi di un indefinito sud Italia, cottage in campagna. Ogni aspetto dei video è curato nei minimi dettagli, dalla luce alla riprese, fino alle musiche che si assomigliano tutte: il rumore delle onde che si infrangono sulla sabbia se l’ambientazione è marittima, il cinguettio degli uccelli se lo sfondo è la campagna.
Instagram prima e TikTok poi hanno romanticizzato l’esperienza dello slow living polverizzando i potenziali contenuti informativi e traducendoli in pura ostentazione di uno stile di vita virtuoso.
Il compimento social dello slow living si è tradotto nella cristallizzazione di un’estetica elitaria ed escludente, alla quale poche persone possono avere accesso, e ciò non ha fatto altro che acuire la distanza – già sentita – tra chi divulga e chi fruisce i contenuti.
Alcune attiviste climatiche hanno lamentato la problematicità di questa deriva estetizzante: Leah Thomas, fondatrice di “Intersectional Enviromentalist”, sostiene che questo sia solo uno dei tanti movimenti radicati nell’appropriazione culturale, dice: «Mi sembra che non facciamo altro che creare nuove parole per definire l’iterazione di un modo di vivere costoso e inaccessibile» e aggiunge «le persone che conosco praticano lo slow living senza pubblicare i video patinati che circolano sui social». Forse la chiave sta proprio qui: quando smetteremo di filmarci anche durante i momenti di relax e cesseremo di considerare ogni attività come un potenziale content per Instagram o TikTok, allora avremo capito come sfruttare a pieno lo “slow living”.
La pigrizia salverà il mondo
I modelli sociali prescrivono giornate iniziate all’alba dove ogni ora del giorno viene occupata da un impegno diverso. La retorica dominante ci impone di ritagliare spazio non solo per il lavoro, ma anche per la cura personale, per la pulizia della casa, per cucinare e addirittura per la cura spirituale. La moda di praticare esercizi per la propria mente, come la meditazione o lo yoga, ha come requisito fondamentale per il suo svolgimento quello di essere praticata rigorosamente non dopo le sette di mattina. Questa rappresenta da un lato la possibilità di sfogare tutta la tensione accumulata, dall’altro solo l’ennesima attività da inserire in agenda.
Nella vita di tutti i giorni, all’interno di questa narrazione comune, la pigrizia assume la fisionomia di un vero e proprio peccato capitale. Una vita pigra viene condannata, e il pigro additato come colui che non è in grado di soddisfare quei paramenti sociali che sembrano essere ormai alla base del successo. Il senso di colpa che tutto questo genera è nella maggior parte dei casi non una spinta verso una maggiore, e soprattutto migliore, laboriosità ma più un sentimento che blocca e rinchiude in se stessi, rendendoci trappola di un sentimento di inadeguatezza.
Se i rischi di una vita dominata dalla pigrizia sono quanto meno innegabili, dal lato opposto vivere come automi capaci di rendere il massimo in ogni situazione è umanamente impossibile. Questo ci porta a un tale accumulo di stress, che spesso arriva a degenerare e a causare disturbi sia fisici che psichici, come il burnout.
Il senso di colpa che avvertiamo oggi all’idea di passare una giornata sdraiati sul divano dovrebbe risuonare in noi come un campanello d’allarme. Quando esattamente il ritrovarsi con la mente libera dagli impegni è diventato sinonimo di nullafacenza?
Seneca indicava l’otium come condizione necessaria dell’uomo per acquisire sapienza. Secondo il filosofo l’otium concede il tempo per focalizzarsi su di sé, per conoscersi, migliorare se stessi e aprire la propria mente alle grandi questioni. Solo un approccio qualitativo del tempo, legato al saperne godere a pieno, consente di condurre al massimo delle proprie capacità la propria esistenza. In quest’ottica il tempo impiegato nella riflessione e nell’osservazione del mondo che ci circonda è tutt’altro che tempo sprecato, anzi si rivela presupposto dell’azione stessa.
Cent’anni fa Kazimir Malevich teorizzava che a salvare il mondo non sarebbe stata la bellezza, ma la pigrizia. Il pittore russo formulò tale concetto durante i primi anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre, in un contesto storico culturale nettamente diverso da quello in cui siamo calati al giorno d’oggi. Tuttavia, centrale nella sua riflessione è stato il ritenere necessario un cambiamento degli ordini sociali, e la necessità di quello che Malevic definiva “un nuovo grado zero”. La ricerca di nuove formule di funzionamento del mondo è una necessità che interessa anche l’uomo moderno. Emblematico è il fatto che, immerso in un sistema comunista incentrato sull’etica lavorativa, la pigrizia rappresentasse per lui il nuovo progetto di esistenza.
4 Day Week
Il 22 febbraio sono stati resi pubblici i dati raccolti nel Regno Unito riguardanti uno studio condotto su 61 aziende che hanno svolto un periodo di sperimentazione con settimana lavorativa di quattro giorni durato per sei mesi. I risultati di questo esperimento sono sicuramente positivi: del totale delle aziende partecipati la quasi totalità (56 aziende) ha deciso di estendere il periodo di utilizzo della settimana lavorativa di quattro giorni e 18 di queste ha deciso di adottare definitivamente questa nuova alternativa. Joe Ryle, il direttore della 4 Day Week Campaign, descrive l’esperimento come «a major breakthrough moment». I risultati dell’esperimento infatti mostrano come la settimana corta non intacchi i profitti delle aziende, non ne faccia diminuire la produttività e contemporaneamente migliori l’umore e la salute dei lavoratori e delle lavoratrici. A proposito di questo, Davi Alatorre, Chief technology officer della Rivelin Robotics, azienda che ha preso parte all’esperimento dal giugno 2022, dichiara: «Volevamo che nell’azienda si diffondesse l’idea che la salute sia al primo posto, assicurandoci che tutti abbiano il riposo sufficiente e un equilibrio corretto tra lavoro e tempo libero». Dai dati raccolti sui lavoratori, a seguito dell’esperimento il 39% ha dichiarato di essere meno stressato, il 40% di dormire meglio. Il 71% ha affermato di non soffrire più del cosiddetto burnout, lo stress da lavoro.
A fronte di risultati così positivi, i promotori di questa campagna si sono detti pronti a battersi affinché la settimana lavorativa di quattro giorni diventi legge nel Regno Unito.
Le quaranta ore settimanali di lavoro erano state introdotte per la prima volta da Henry Ford nelle sue fabbriche: sono quindi il prodotto di una società che oramai non esiste più, se consideriamo i cento anni che intercorrono dalla creazione di quel modello. Già nel ‘91 Juliet Schor – professoressa di economia e sociologia all’università di Boston – pubblicava il libro “Overworked American”, in cui evidenziava la necessità di riformare il sistema lavorativo americano, a fronte di un aumento continuo dell’ammontare delle ore di lavoro che si stava verificando negli Stati Uniti.
Gli organizzatori della campagna 4 Day Week dicono quindi che a fronte del cambiamento radicale intercorso tra la società vissuta da Henry Ford e quella odierna è il motivo principale per cui bisogna iniziare a progettare un cambiamento radicale della progettazione del lavoro nelle aziende: le forme di organizzazione sociale del lavoro devono necessariamente cambiare nel tempo di pari passo con le trasformazioni della società in cui viviamo. «Se ogni epoca ha delle esigenze diverse allora si può intervenire per ridurre l’insoddisfazione che c’è nel mondo del lavoro», dichiara la sociologa Francesca Coin al podcast “Il Mondo”.
Dall’altra parte nel post-pandemia si è verificata la nascita di un movimento generatosi su Reddit, che si fa chiamare “antiwork movement”. Composto principalmente da lavoratori dipendenti di provenienza occidentale (la maggioranza proviene dagli Stati Uniti, ma c’è anche una forte minoranza Europea), si muove su posizioni molto critiche non nei confronti di tutti i lavori, ma di quelli che definiscono come degradanti per chi li svolge. Il movimento ha basi forti negli States anche a causa della poca regolamentazione del lavoro presente nel Paese. Il movimento critica fortemente la società e il modello di lavoro a cui molti impiegati devono sottostare, che comprende abusi di potere da parte dei superiori e il non rispetto dei giorni di riposo o degli orari prestabiliti. Gli Stati Uniti sono dunque andati improvvisamente a sbattere contro il sistema che a partire dalla Reaganomics si è andato costruendo, in cui la privatizzazione capillare predicata dal Neo-liberismo ha portato allo stremo i lavoratori. La pandemia è stato un momento in cui, avendo la possibilità di rallentare, la classe lavoratrice ha potuto guardare criticamente al modello a cui erano abituati e ha deciso di reagire. Forse è un piccolo primo passo per un cambiamento epocale.
Articolo di Lorenzo Pedrazzi, Beatrice Puglisi, Lea Negroni e Matilda Ferraris