Il fenomeno del water grabbing sale in superficie

Sempre più scarsa e preziosa, l’acqua sta diventando il nuovo asset che smuove gli interessi finanziari e geopolitici globali.

23/05/2021

Il cambiamento climatico e l’aumento demografico globale rappresentano un grave problema non solo in funzione di una maggiore sostenibilità ambientale ma anche per l’approvvigionamento di acqua potabile, specialmente in determinate aree geografiche fortemente colpite da fenomeni di desertificazione. È già abbastanza noto che sulla disponibilità complessiva di acqua, solo circa il 2% sia effettivamente utilizzabile dall’uomo per il sostentamento e l’irrigazione dei campi agricoli. Invece, ciò che negli ultimi anni tende a passare in sordina riguarda la maggior frequenza di situazioni di siccità e inquinamento dei bacini acquiferi, che rendono questa risorsa particolarmente attraente per le speculazioni in borsa.

 

L’acqua pulita è sempre più rara

Una recente inchiesta del The Guardian ha evidenziato che milioni di americani affrontano seri problemi di qualità dell’acqua a causa della contaminazione, del deterioramento delle infrastrutture e dell’inadeguata gestione degli impianti idrici. I test nelle acque statunitensi, effettuati negli ultimi mesi in collaborazione con Consumer Reports, mostrano che più del 35% dei campioni d’acqua selezionati presenta PFAS (sostanze chimiche presenti in molti prodotti per la casa e potenzialmente tossiche), circa l’8% contiene arsenico e nel circa 98% è stato rilevato piombo, in tutti e tre i casi a livelli superiori di quelli considerati accettabili dal governo federale. Inoltre, i sistemi idrici che forniscono le aree più povere e rurali sono maggiormente soggetti alla violazione degli standard sulla pulizia dell’acqua potabile, esponendo a un maggior rischio le minoranze etniche e, in particolare, quella latino-americana.
La crisi idrica negli Stati Uniti sta diventando sempre più una crisi di accessibilità economica dell’acqua, in quanto un’altra indagine del The Guardian ha rilevato che milioni di cittadini americani hanno dovuto affrontare un’ulteriore innalzamento delle bollette durante la crisi pandemica. Infatti secondo quest’analisi, già dal 2010 al 2018 il prezzo dell’acqua in 12 città degli Stati Uniti è cresciuto in media dell’80%, raggiungendo livelli insostenibili in città come Austin, in Texas, dove la bolletta media annuale è passata da $ 566 nel 2010 a $ 1.435 nel 2018, nonostante gli sforzi di mitigazione della siccità con conseguente riduzione del consumo di acqua.

Dall’altra parte del globo, dall’anno scorso Taiwan vive una condizione di estrema siccità che ha portato le autorità governative a sottoporre la popolazione e le imprese a un razionamento generalizzato dell’acqua. L’isola aveva già attraversato simili periodi di siccità, ma per un lasso di tempo così lungo soltanto nel 1964. Inoltre, la precarietà di questa situazione sta ostacolando anche la produzione di microprocessori da parte della società TSMC che necessita di ingenti quantità di acqua, rallentando il relativo export e la catena di produzione nel comparto elettronico dei maggiori acquirenti, tra cui molte aziende cinesi e statunitensi.

 

Cresce il rendimento degli indici azionari nel settore idrico

Il problema della scarsità di acqua interessa anche molte altre aree geografiche e complessivamente sono già diciassette i Paesi con un altissimo stress idrico, come riportato dall’Atlante del rischio idrico realizzato da World Resources Institute (WRI). Dodici di questi Paesi si trovano nel Vicino e Medio Oriente dove la scarsità della risorsa potrebbe acuire le già presenti tensioni politiche. Stando ai dati del WRI sette Stati dell’Unione, tra cui Spagna, Italia, Belgio e molte regioni tedesche soffrirebbero di uno stress idrico medio-alto.

Secondo il report del 2019 dell’OMS entro il 2025, metà della popolazione mondiale vivrà in aree a un livello più o meno elevato di stress idrico. Nel 2017 2,2 miliardi di persone hanno utilizzato servizi di acqua potabile non gestiti in sicurezza o molto lontani dalle proprie residenze. Persistono forti disuguaglianze geografiche, socio-culturali ed economiche, non solo tra le aree rurali e urbane, ma anche nelle città in cui le persone che vivono in insediamenti a basso reddito di solito hanno meno accesso a fonti di acqua potabile migliori rispetto agli altri residenti. Si stima che circa 829.000 persone muoiano ogni anno di disturbi di defecazione -ampiamente prevenibili in altri contesti- a causa di acqua non potabile, servizi sanitari e igienici non sicuri. Secondo l’OMS il riutilizzo delle acque reflue per recuperare acqua, nutrienti o energia, sta assumendo un’importanza sempre più strategica specialmente per l’irrigazione dei campi agricoli.

Dunque, oltre che essere una risorsa maggiormente scarsa e costosa, l’acqua sta diventando sempre più un attraente asset finanziario per le speculazioni in borsa.
Lo scorso dicembre, sotto gli occhi di tutti ma l’attenzione di pochi, sono stati venduti i primi futures al Chicago Mercantile Exchange, il più importante mercato finanziario del mondo tra quelli che si occupano di commodities, ovvero quei beni il cui valore non cambia in base al produttore – come anche per i metalli, i prodotti agricoli e il petrolio. I futures sono dei contratti sull’acquisizione futura di una risorsa a un prezzo prefissato sulla base, in questo caso, del Nasdaq Veles California Water Index che misura il prezzo dell’acqua in California considerando le transazioni dei cinque maggiori mercati di acqua nello stato americano. Il rischio di speculazioni è palpabile, dato che questi contratti assomigliano a delle scommesse, per le quali se il prezzo dell’acqua continuerà a crescere superando quello prefissato, l’acquirente ci avrà guadagnato. Tuttavia, alcuni esperti ritengono che la stipulazione di questo tipo di contratto da parte di industrie e aziende agricole potrebbe, in realtà, sopperire all’opacità finanziaria delle transazioni che avvengono nei mercati spot, in cui un bene viene acquistato a prezzi correnti e quindi spesso è soggetto a rilevanti fluttuazioni. Come dettagliatamente riportato da Bloomberg, i più importanti fondi di investimento del settore e gli indici azionari che misurano la performance di titoli a grande capitalizzazione in base alla loro esposizione al rischio idrico, stanno generando un rendimento esponenzialmente positivo negli ultimi anni.

 

I casi di water grabbing del Southeastern Anatolia Project e il Grand Ethiopian Renaissance Dam

Il fenomeno del water grabbing, o accaparramento dell’acqua, può manifestarsi sotto vesti diverse da quelle che fanno della risorsa un moderno asset, impegnando gli Stati su contesti geopolitici strategici per la presenza di fonti idriche contese, poiché attraversano i confini di più territori.
Non a caso, in un contesto segnato da un aumento della domanda di questa risorsa primaria si è verificato anche un aumento significativo dei conflitti legati all’acqua. Tra il 2000 e il 2009 ne sono stati censiti 94, mentre tra il 2010 e il 2018 sono diventati 263, come si legge nel rapporto dell’Unesco “Nessuno sia lasciato indietro”.

I ricercatori del Water, Peace and Security Partnership hanno presentato una mappa dettagliata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in cui sono stati segnalati i paesi con un alto rischio di incorrere in dei conflitti per l’accesso alle risorse idriche tra il 2020 e il 2021. Il Medio Oriente e il Nord Africa sono le aree più sospette, in cui oltre all’instabilità politica e di sicurezza c’è una seria penuria di acqua.
In generale, nei pressi di alcuni dei più importanti fiumi e bacini acquiferi sono già in atto delle controversie per lo più diplomatiche.

Il regime d’acqua dei fiumi Tigri ed Eufrate, che nascono in Turchia e attraversano la Siria e l’Iraq, è stato fortemente limitato a partire dal 2005, quando Erdogan durante il suo primo governo progettò la costruzione di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici per sostenere l’economia della zona sud orientale del Paese, teatro di guerra tra le truppe turche e il partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Anche l’Iran, dal canto suo, ha sviluppato sistemi di dighe sugli affluenti più importanti del fiume Tigri, da cui quest’ultimo trae il 30% delle sue acque.

Il progetto turco si chiama Southeastern Anatolia Project (GAP) e il governo centrale stima di ultimarlo nel 2023. Una delle ragioni alla base del GAP, secondo i suoi oppositori, risiederebbe nel desiderio di controllare l’area a maggioranza curda. Infatti, le dighe hanno costretto la popolazione locale ad emigrare e hanno cancellato testimonianze storiche importanti per la memoria curda come il villaggio di Hasankeyf, sbarrando le vie di comunicazione interne e transfrontaliere dei militanti del Pkk. Inoltre, la loro costruzione e il successivo mantenimento hanno rappresentato il giusto pretesto per aumentare la presenza militare e il controllo statale nella zona.
Oltre a questo, il Tigri e l’Eufrate rappresentano circa il 70% dell’acqua disponibile in Iraq, ma gli impianti turchi hanno ridotto i flussi di circa il 50% causando diversi problemi igienico-sanitari per la società civile irachena.
Le mobilitazioni proseguono anche nella zona settentrionale della Siria attraversata dai due fiumi e lo scorso agosto il Rojava Information Center ha esposto i rischi delle continue interruzioni delle forniture di acqua potabile da parte della Turchia.
Inoltre, alcuni ricercatori del  Proceedings of the National Academy Sciences sostengono che la grave e prolungata condizione di siccità che ha attanagliato la Siria tra il 2006 e il 2010 sia stata una delle cause scatenanti dei disordini politici degli anni successivi, poiché comportò una profonda instabilità sociale e la migrazione di quasi 2 milioni di agricoltori verso i centri urbani.

Dal 2011, in Etiopia è stato avviato un progetto di produzione di energia idroelettrica, attraverso la costruzione di un’importante diga, chiamata Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), sul Nilo Azzurro per favorire lo sviluppo economico e il fabbisogno energetico del proprio territorio. l’Egitto e il Sudan, allo stesso modo interessati alle risorse idriche del Nilo, si sono mostrati fortemente contrari al progetto ma, nonostante la mancanza di un accordo fra i tre paesi, lo scorso anno il governo etiope ha autonomamente deciso di iniziare il riempimento della diga.
L’Unione africana e l’Unione europea si son mostrate predisposte a intercedere diplomaticamente per la ricerca di un compromesso fra le parti, ma c’è il rischio che le tensioni si aggravino. Infatti, lo scorso gennaio si sono verificati degli scontri armati al confine conteso tra Sudan ed Etiopia per l’accaparramento della regione fertile di el–Gadarif, formalmente parte del primo paese, mentre a inizio marzo il generale sudanese Al Burhan e il governatore egiziano Al Sisi hanno sottoscritto un accordo diplomatico e militare allo scopo di rafforzare la sicurezza dei confini e la sicurezza nazionale dei due paesi. Inoltre, i due rispettivi ministri degli Esteri hanno avvertito che qualsiasi riempimento unilaterale della diga da parte dell’Etiopia rappresenterebbe una minaccia diretta contro la sicurezza idrica di entrambe le nazionii e quindi le condizioni di vita di decine di milioni di persone.

 

L’egemonia idrica e il water grabbing della Cina

Il controllo delle risorse idriche può essere anche una manifestazione della sovranità di un Paese proiettato negli scenari geopolitici futuri. Attualmente, altre zone di particolare tensione sono quelle che circoscrivono  l’Indo, il Mekong, il Brahmaputra e l’Irrawaddy, dove una serie di costruzioni volute dalla Cina hanno allarmato altri stati come India e Vietnam.
Al confine di Cina e India e tra le vette dell’Himalaya, lo scorso giugno si sono riaccese forti tensioni rivendicative sfociate, per la prima volta dopo 45 anni, in uno scontro militare. Una delle principali ragioni del conflitto è stata, per l’appunto, la presenza del fiume Yarlung Tsangpo-Brahmaputra che, scendendo dalle altissime montagne dell’Himalaya e attraversando la linea di confine McMahon, accumula una grandissima quantità di energia.
All’India fornisce irrigazione per le distese di terreni agricoli e rappresenta il 40% del potenziale idroelettrico del paese mentre la Cina ricava una parte importante della sua energia proprio dai corsi d’acqua del Tibet occupato.
Nel 2015 l’India denunciò il rischio di una netta riduzione della portata dell’acqua nei suoi territori a causa della costruzione da parte della Cina di una diga a monte, su un affluente del Brahmaputra. Così, il governo cinese smise di trasmettere i dati sulla portata delle acque nell’alto corso, necessari per prevedere eventuali piene, e i rapporti circa le risorse idriche tra i due stati sono gradualmente peggiorati. Di recente la Cina ha dichiarato di voler costruire nel territorio tibetano la più grande diga del mondo, che rientrerebbe nel progetto di decarbonizzazione totale entro il 2060. Come se si trattasse di una gara a chi accaparra più acqua, il presidente Modi ha annunciato a sua volta un pacchetto di altre cento nuove dighe da realizzare nei prossimi anni.

Peraltro, la Repubblica Popolare Cinese ha una contesa in sospeso anche con le Filippine, contro la quale si espone da anni per ottenere la sovranità del Mar Cinese Meridionale e, in particolare, della Zona Economica Esclusiva delle Filippine, grazie alla quale queste isole mantengono il primato nell’esportazione di tonno e alga marina verso gli Stati Uniti, Hong Kong, Giappone, Canada e Cina.
Nel 2013, il governo delle Filippine fece ricorso al Tribunale Permanente di Arbitrato dell’Aja contro l’occupazione illecita di Scarborough Shoal – una zona molto ricca per la pesca – da parte delle milizie cinesi e, nel 2016, il Tribunale dichiarò nella storica sentenza che le pretese cinesi rappresentassero una violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.
Nonostante ciò, il governo cinese ha continuato a costruire isole artificiali, basi militari e aeroporti depositando sabbia sopra la barriera corallina, con lo scopo di usufruire non solo dei bacini petroliferi e di gas naturale presenti nella zona, ma anche di assumere il controllo dello Stretto di Malacca che garantisce l’accesso all’Oceano Indiano.
La situazione è molto simile per Il fiume Mekong, il più lungo corso d’acqua del sud-est asiatico che sfocia nel Mar Cinese Meridionale attraversando il Tibet, la provincia cinese dello Yunnan, poi il Myanmar, la Thailandia, la Cambogia, il Laos e il Vietnam.
L’egemonia idrica e la costruzione di numerose dighe per il trattenimento dell’acqua da parte della Cina e del Laos ne hanno ridotto ulteriormente il livello a quote allarmanti già all’inizio del 2021, causando ingenti complicazioni economiche ed ambientali nei paesi nei quali scorre.
Anche il Mekong, come il Mar Cinese Meridionale, rappresenta una via strategica all’interno del progetto Belt and Road Initiative (BRI), in quanto consentirebbe un ingresso diretto verso l’Indocina.

Articolo di Federica Scannavacca