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Nello Xinjiang è in atto la cancellazione dell’etnia degli Uiguri
Nonostante le smentite di Pechino, nei campi di lavoro forzato della regione, gli Uiguri subiscono i soprusi cinesi, e si inizia a parlare di genocidio.
La CBP – polizia per la protezione doganale e di frontiera degli Stati Uniti – il 13 gennaio ha annunciato il blocco sull’importazione del cotone e dei pomodori provenienti dallo Xinjiang, regione autonoma della Cina occidentale, perché esito di lavoro forzato della minoranza Uigura. Il blocco, che segue diverse limitazioni passate, stila un vasto elenco di beni: fibre grezze; abbigliamento e tessuti realizzati con cotone coltivato nella regione; prodotti alimentari a base di pomodoro e semi. Il divieto si estende anche a prodotti elaborati o trasformati in altri paesi, ma che importano materie prime dalla regione cinese. La polizia di frontiera – che è parte del Dipartimento per la sicurezza interna degli Stati Uniti – stima che nel 2020 l’importazione dalla Cina negli States di prodotti che implicano l’uso del cotone ha un valore di 9 miliardi di dollari, mentre per i pomodori 10 milioni.
Divieto a stelle e strisce
Il susseguirsi di provvedimenti genererà un significativo impatto sulla produzione di cotone cinese, che fornisce fino al 20% dell’offerta della merce a livello mondiale. Avranno problemi anche i produttori di abbigliamento e di alimentari, i quali pur tentando di prendere le distanze dalla Cina, dovranno garantire che le loro catene di fornitura non siano collegate con la regione, mentre i funzionari doganali dovranno affrontare una crescente mole di lavoro per tracciare la provenienza dei materiali. Il New York Times spiega che in un report pubblicato in ottobre dal Government Accountability Office “le dogane hanno sofferto di carenza di personale e altre problematiche, nonostante le nuove divisioni e risorse dedicate al blocco delle merci realizzate attraverso il lavoro forzato”. Una doppia sfida, dunque, sia per le aziende che per il governo statunitense.
“La soluzione è sempre nel confronto e nell’apertura. Le chiusure e le sanzioni penalizzano le fasce più deboli della società”, spiega a Scomodo Tina Marinari, responsabile ufficio campagne di Amnesty International Italia. “La questione – prosegue – non è chiudere i colloqui, ma parlarsi e portare avanti politiche che mettano al centro il tema dei diritti umani. Una chiusura totale preclude, infatti, la possibilità di dialogare con la controparte”.
La decisione statunitense condizionerà le aziende che ancora non hanno deciso di recidere i rapporti con lo Xinjiang. Alcune aziende tessili e di abbigliamento hanno già comunicato che stanno cambiando area di approvvigionamento del materiale, come ad esempio Patagonia, H&M e Marks & Spencer. Molte altre imprese, invece, hanno difficoltà a rintracciare l’origine dei loro materiali provenienti da fornitori cinesi per via dell’impossibilità di accesso a molte informazioni. Tali aziende dovranno adeguarsi alle nuove leggi statunitensi che vietano di utilizzare materiali prodotti dal lavoro forzato degli Uiguri, se non vorranno perdere una buona fetta del loro mercato. Come riportato recentemente dalla BBC, si stima che centinaia di migliaia di Uiguri siano impiegati nella raccolta del cotone in condizioni coercitive. Le condizioni dei raccoglitori di cotone è compreso in un più ampio contesto di brutalità nei confronti degli Uiguri, che ha come conseguenza l’imposizione dei ban statunitensi su vari prodotti provenienti dallo Xinjiang.
Gli Uiguri
Gli Uiguri appartengono a un gruppo etnico di religione musulmana che vive principalmente nello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina. Rappresentano l’1.5% della popolazione cinese e secondo Chinese Human Rights Defenders in quell’area si verifica il 20% degli arresti dell’intera Cina.
L’area è attraversata dalla Via della Seta, perciò lo Stato centrale tenta di mantenere l’ordine nella regione, così da non perdere il controllo di un importante corridoio che collega la Cina all’occidente attraverso l’Asia centrale.
I rapporti tra il governo centrale e la minoranza Uigura si sono esacerbati negli ultimi vent’anni, da quando gli Uiguri sono stati etichettati dallo Stato come terroristi estremisti. Nel 2009 ci fu un duro scontro etnico a Urumqi – capitale della regione – tra la maggioranza Han e gli abitanti Uiguri della città; le violenze costarono la vita a 197 persone. Il Partito Comunista “incolpò tutti gli Uiguri, accusandoli di essere un focolaio dell’Islam radicale e del separatismo”, riporta il Guardian.
Ciò ha portato, nella regione, alla creazione di una vasta rete di campi definiti dal governo cinese di “trasformazione attraverso l’educazione”. “All’interno dei campi avviene un indottrinamento politico e una assimilazione culturale forzata. Nello Xinjiang è stato adottato e imposto un regolamento di de-radicalizzazione per la protezione della sicurezza nazionale e dal terrorismo, con riferimento a posizioni estremiste. Il Governo cinese applica una sistematica persecuzione etnica e religiosa, e il fatto che non se ne parli in proporzione alla gravità della situazione rappresenta la capacità della Cina di non fa uscire informazioni pur perpetuando le violazioni”, chiarisce Tina Marinari.
Non si conosce con precisione da quando siano attivi i campi, ma la Jamestown Foundation ipotizza lo siano dal 2014. Le motivazioni per cui una persona Uigura può venir detenuta sono disparate: recitazione del corano ad alta voce, indossare il velo, farsi crescere la barba, aver fatto visita ai parenti all’estero, ma anche smettere improvvisamente di bere o fumare sono alcuni dei pretesti. Il timore cinese nasce dal sospetto verso il sentimento indipendentista Uiguro e la radicalizzazione islamica, anche a causa del fatto che lo Xinjiang confina con Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, nazioni a maggioranza musulmana. La Cina teme anche che le influenze del medio-oriente possano portare gli Uiguri ad aderire all’estremismo islamista: un’inchiesta di Associated Press evidenzia che sono almeno 5mila gli Uiguri che dalla Cina si sono arruolati per combattere in Siria, ma ciò non giustifica le brutalità che il governo cinese compie nei loro confronti ormai da anni. I detenuti sono istruiti su come praticare la religione islamica con restrizioni e alcuni ex detenuti raccontano di aver subito torture o di interrogatori con metodi dolorosi.
Una delle pratiche più frequenti è la separazione dei bambini dalla famiglia in modo che non ne assorbano la cultura. Se ciò non bastasse, il governo cinese costringe le donne appartenenti alla minoranza islamica a controlli di gravidanza, forza l’uso di metodi contraccettivi, la sterilizzazione e l’aborto, con l’intenzione di ridurre il tasso di natalità. Tutti questi gli elementi sono riconducibili alla definizione di genocidio etnico.
Etichetta degli Uiguri
Lo Xinjiang è tra le regioni più sorvegliate al mondo. Il Governo controlla la popolazione attraverso telecamere e polizia. Il Washington Post e poi la BBC hanno scritto riguardo all’esistenza di brevetti appartenenti ad aziende cinesi su sistemi di sorveglianza a riconoscimento facciale in grado di rilevare l’etnia del soggetto osservato. Il brevetto di Huawei, depositato nel 2018 in collaborazione con l’Accademia Cinese delle Scienze, delinea le modalità con cui servirsi del deep-learning e dell’intelligenza artificiale per identificare le diverse posizioni in cui può essere ripreso un pedone. Il documento, però, non si ferma a tali descrizioni, ma elenca anche gli attributi che possono valere come discriminante nell’identificazione di un soggetto: tra essi compare anche l’etnia, “race (Han, Uighur)”. Il brevetto è stato portato alla luce da IPVM – organizzazione indipendente che analizza e valuta i sistemi di video-sorveglianza – che già in precedenza aveva fatto emergere un ulteriore documento riservato di Huawei, ma disponibile sul loro sito europeo contenente riferimenti a un sistema di “allerta Uiguro”. L’azienda ha tentato di smorzare le proteste dicendo che erano riferimenti a dei test e non per per applicazioni reali. La presenza di questi elementi, nonostante le smentite di Huawei che si dice “contraria a qualsiasi tipo di discriminazione”, non fanno altro che rinforzare la tesi sull’uso di tali tecnologie per reprimere la minoranza islamica. IPVM ha trovato altri riferimenti all’etnia Uigura in altri brevetti cinesi. Sensetime, al momento la più importante azienda di AI al mondo, nel 2019 mostrava come si sarebbe potuto utilizzare un software a riconoscimento facciale per una protezione più efficiente proponendo come esempio la ricerca di “un Uiguro di mezza età con occhiali da sole e barba”. L’azienda Megvii – specializzata in software per il riconoscimento delle immagini – ha depositato un brevetto a giugno 2019 che permette di sostituire l’etichetta di un soggetto in caso di errore. Il documento indica che un principio su cui classificare i soggetti potrebbe essere l’etnia, come ad esempio “Han, Uiguri, non Han, non Uiguri e sconosciuti”. La società ha detto che ritirerà il brevetto, riconoscendo che tali esempi possono portare a incomprensioni; ha anche aggiunto che in passato ci si è troppo focalizzati sullo sviluppo commerciale dei prodotti senza adottare i dovuti controlli.
In Cina, sistemi di riconoscimento facciale vengono tuttora utilizzati per reprimere oppositori e dissidenti e, in passato, il Governo ha affermato che tali tecnologie sono d’aiuto alla polizia per mantenere sicure le città, oltre che a dimostrare l’avanguardia dello Stato. Persistono profonde preoccupazioni etiche e sui diritti umani, ma non sono gli unici aspetti da considerare: infatti, la qualità della risposta dipende sia da fattori ambientali sia dai tratti somatici delle figure scansionate, e non sempre i risultati sono attendibili e corretti.
Il ruolo dell’Occidente
Il recente divieto degli Stati Uniti sui prodotti provenienti dallo Xinjiang è l’applicazione pratica dello Uyghur Forced Labor Prevention Act, una legge passata a Settembre 2020 dalla Camera dei Rappresentati con solo 3 voti contrari. In Giugno, lo Uyghur Human Rights Policy Act, che si prefigge l’obiettivo di monitorare la situazione umanitaria nello Xinjiang, era stato passato con la quasi unanimità dei voti a favore. I provvedimenti, sebbene appoggiati da entrambi i partiti, fanno parte della più ampia strategia dell’Amministrazione Trump per contrastare l’espansione economica cinese. È infatti difficile pensare che sia tutto frutto di un genuino interesse per il rispetto dei diritti umani, dopo che Trump, durante il suo mandato, ha cominciato una guerra di dazi doganali contro la Cina e ha minacciato di bannare TikTok e Huawei dal paese. Tuttavia, quella degli States è anche la risposta più pragmatica fra quelle delle potenze occidentali, che ancora stentano a predisporre una strategia comune per contrastare quello che ormai è l’inattaccabile colosso cinese.
Al livello delle Nazioni Unite, 39 erano le Nazioni che, a fine 2020, si sono opposte al trattamento degli Uiguri da parte del governo cinese attraverso una lettera congiunta al Consiglio per i Diritti Umani, ma 45 erano quelle che invece lo sostenevano – numero che fino a poco tempo fa era ancora più alto, prima che ben 15 nazioni che supportavano Pechino nel 2019 ritirassero la loro firma l’anno successivo.
Il primo organo a utilizzare la parola “genocidio” per definire ciò che sta accadendo agli Uiguri in Cina (e non solo) è stata la Sottocommissione canadese per i Diritti Internazionali dell’Uomo nell’Ottobre 2020. Tuttavia, il Canada non ha imposto sanzioni sulla Cina in seguito al fatto. Negli Stati Uniti, a ventiquattro ore dal giuramento del neo eletto Presidente Biden, il Segretario di Stato di Trump, Mike Pompeo, ha affermato che “stiamo assistendo al tentativo sistematico di distruggere gli Uiguri da parte del partito-stato cinese” e ha riutilizzato il termine “genocidio”. Questa e altre affermazioni gli sono costate, insieme ad altri 27 ufficiali dell’Amministrazione Trump, una sanzione e diffida da parte del Governo cinese, che comprendeva anche il divieto, esteso alla sua famiglia e alle compagnie e istituzioni a lui associate, di entrare nel territorio cinese e svolgere trattative le sue aziende. Il governo di Pechino ha accolto con gioia l’elezione di Biden, sperando in un cambio di rotta rispetto all’Amministrazione precedente. Sebbene sia vero che il nuovo presidente abbia giudicato l’approccio di Trump errato e abbia dichiarato che lavorerà per contrastare la Cina in modi più “costruttivi”, il nuovo Segretario di Stato Antony Blinken si è detto d’accordo con le dichiarazioni di Pompeo sugli Uiguri, dimostrando che la rotta non è stata completamente invertita.
Da parte delle nazioni europee, poche sono state le azioni volte al supporto dell’etnia Uigura. Infatti, oltre a firmare una dichiarazione congiunta sulle violazioni etiche che colpiscono la comunità nello Xinjiang, solo la Germania ha specificamente invitato la Cina a fornire l’accesso alla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite nei campi di detenzione, mentre la Francia è stato l’unico paese ad aver minacciato ripercussioni sul campo economico quando, a Dicembre 2020, ha dichiarato che si opporrà al Comprehensive Agreement on Investment fra Cina e Unione Europea per via dei soprusi nei confronti degli Uiguri.
Articolo di Nicolò Benassi